La preghiera come lotta: Abramo e Giacobbe davanti a Dio

La mediazione di Abramo davanti a Dio: la preghiera come lotta

Il Mantello della Giustizia – Agosto 2022

di Stefano Tarocchi · Nelle scorse domeniche la liturgia ha richiamato, di fronte a quanti in questi tempi così particolari trovano ancora il tempo di partecipare, l’insegnamento del Vangelo di Luca sulla preghiera, che ha come centro il Padre nostro e tutto ciò che vi è collegato: «Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”» (Lc 11,1). Lo stesso Vangelo di Luca è un continuo affacciarsi della preghiera di Cristo, fino a una sorta di culmine, ossia l’incipit del capitolo 18: Gesù «diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai» (Lc 18,1). E seguono due splendide parabole.

Ma oltre al testo del Vangelo di Marco, la liturgia riporta il racconto, tratto dal libro della Genesi in cui Abramo cerca di scongiurare la distruzione della città di Sodoma, punita senza rimedio per il grave peccato dei suoi abitanti.

Il racconto della Genesi è una raffinata descrizione del rapporto fra Dio e Abramo, condotta quasi in punta di penna fra i due straordinari protagonisti, come più avanti il libro dell’Esodo parlerà di Mosè: «il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico» (Es 33,11).

Richiamiamo il dialogo fra Dio ed Abramo: «in quei giorni, disse il Signore: «il grido di Sodoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!». Quegli uomini – i tre sotto cui si cela il Signore alle Querce di Mamre – partirono di là e andarono verso Sodoma, mentre Abramo stava ancora alla presenza del Signore. Abramo gli si avvicinò e gli disse: «Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?».

Rispose il Signore: «Se a Sodoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo». Abramo riprese e disse: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere: forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?». Rispose: «Non la distruggerò, se ve ne troverò quarantacinque». Abramo riprese ancora a parlargli e disse: «Forse là se ne troveranno quaranta». Rispose: «Non lo farò, per riguardo a quei quaranta». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta». Rispose: «Non lo farò, se ve ne troverò trenta». Riprese: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei venti». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola: forse là se ne troveranno dieci». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei dieci» (Gen 18,20-32).

Abramo, peraltro, non osa andare sotto questo numero, il numero di dieci unità, che significativamente diventa il minimo necessario perché si possa tenere una riunione di preghiera in sinagoga: da notare dieci unità di sesso maschile.

Ma prima della conclusione della vicenda non possiamo dimenticarci anche della lotta fra Abramo e il Signore, simile peraltro alla lotta tra Giacobbe e il Signore, narrata sempre nel libro della Genesi, dopo che quest’ultimo ritorna dal suo esilio: «durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici bambini e passò il guado dello Iabbòk.  Li prese, fece loro passare il torrente e portò di là anche tutti i suoi averi. Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quello disse: “Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora”. Giacobbe rispose: “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!”.  Gli domandò: “Come ti chiami?”. Rispose: “Giacobbe”. Riprese: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!”. Giacobbe allora gli chiese: “Svelami il tuo nome”. Gli rispose: “Perché mi chiedi il nome?”. E qui lo benedisse.  Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuèl: “Davvero – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva” (Gen 32,25-31). È noto, infatti, che Vedere Dio significa morire (così Es 3,624,1133,20).

Ora, sappiamo come la vicenda di Sodoma si conclude: «il sole spuntava sulla terra e Lot – il nipote di Abramo – era arrivato a Soar, quand’ecco il Signore fece piovere dal cielo sopra Sodoma e sopra Gomorra zolfo e fuoco provenienti dal Signore. Distrusse queste città e tutta la valle con tutti gli abitanti delle città e la vegetazione del suolo. Ora la moglie di Lot guardò indietro e divenne una statua di sale. Abramo andò di buon mattino al luogo dove si era fermato alla presenza del Signore; contemplò dall’alto Sodoma e Gomorra e tutta la distesa della valle e vide che un fumo saliva dalla terra, come il fumo di una fornace» (Gen 19,23-28).

La mediazione di Abramo sembra totalmente inutile, ma la stessa lotta di Abramo con il Signore per impedire la distruzione di Sodoma non è affatto banale: infatti, dice il testo sacro, «quando distrusse le città della valle, Dio si ricordò di Abramo e fece sfuggire Lot alla catastrofe, mentre distruggeva le città nelle quali Lot aveva abitato» (Gen 19,29).

Leggere un testo del Vangelo: non aggiungere né togliere nulla 

Come leggere un testo del Vangelo: due pesi e due misure 

Il Mantello della Giustizia – Luglio 2022

di Stefano Tarocchi · Nel Vangelo di Marco del racconto della moltiplicazione dei pani: «essendosi ormai fatto tardi, gli si avvicinarono i suoi discepoli dicendo: “Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congedali, in modo che, andando per le campagne e i villaggi dei dintorni, possano comprarsi da mangiare”. Ma egli rispose loro: “Voi stessi date loro da mangiare”. Gli dissero: “Dobbiamo andare a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?”.  Ma egli disse loro: “Quanti pani avete? Andate a vedere”. Si informarono e dissero: “Cinque, e due pesci”. E ordinò loro di farli sedere tutti, a gruppi, sull’erba verde.  E sedettero, a gruppi di cento e di cinquanta.  Prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero a loro; e divise i due pesci fra tutti.  Tutti mangiarono a sazietà, e dei pezzi di pane portarono via dodici ceste piene e quanto restava dei pesci.  Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini» (Mc 6,35-44). 

Ora, su questo testo, come su molti altri, incombe un pericolo, che non di rado si avverte, in interpretazioni di totale fantasia: il pericolo di attribuire al testo un valore maggiore o minore di quanto l’autore ha voluto trasmettere nella fedeltà all’ispirazione divina. 

Se la parola di Dio va letta nello stesso spirito con cui è stata composta dopo essere stata ispirata, come insegna il Concilio Vaticano II (Dei Verbum 12), questo comporta necessariamente il rispetto della parola. Non tanto e non solo perché parola di Dio ma anche per questo motivo. 

A chi scrive è capitato, di sentire infatti meditazioni (e/o omelie) in cui, senza rispettare il testo, e anzi gravandolo di un significato inesistente, qualcuno ha detto non: «voi stessi date da mangiare», bensì «date voi stessi da mangiare», quasi che questo cambiamento ingiustificato del testo gli diventi come superiore. L’autore di questi capolavori di fantasia giustifica – o fa giustificare – questa lettura come spirituale, propria di colui che senza motivo pensa di migliorare, senza alcuna necessità, l’interpretazione del Vangelo. 

In questa logica qualunque comunicazione verbale e non verbale diventa prigioniera di chi si appropria della parola di Dio, e di Dio che parla attraverso la parola, per mettere sé stesso al centro. 

Facciamo un altro esempio. Così leggiamo nei racconti dell’infanzia del vangelo di Luca, a proposito dell’annuncio ai pastori: «e subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama” (Lc 2,14). 

Il testo della versione latina di san Girolamo dice: «in terra pax in hominibus bonae voluntatis». Il termine greco usato indica per sé la buona volontà divina, la sua benevolenza. Ecco perché diverse versioni rendono in questa maniera: «sulla terra pace agli uomini, che egli ama». 

L’indirizzo della lettera enciclica sulla pace di Giovanni XXIII, scritta nel 1963 (Pacem in terris), pochi mesi prima della morte, infatti, così diceva: «ai venerabili fratelli patriarchi, primati arcivescovi, vescovi, … che sono in pace e comunione con la sede apostolica, al clero e ai fedeli di tutto il mondo». Fin qui niente di diverso ma il papa santo si rivolge anche «a tutti gli uomini di buona volontà».  

E papa Giovanni aggiunge nella sua lettera che «a tutti gli uomini di buona volontà spetta un compito immenso: il compito di ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà: i rapporti della convivenza tra i singoli esseri umani; fra i cittadini e le rispettive comunità politiche; fra le stesse comunità politiche; fra individui, famiglie, corpi intermedi e comunità politiche da una parte e dall’altra la comunità mondiale» (87). 

Ora, il testo evangelico dice che la buona volontà, la benevolenza, è di Dio. E tuttavia il papa santo, così amato al tempo, coglie un aspetto forse celato nel testo evangelico, ma che il testo quasi fa scaturire. A differenza dell’esempio raccontato prima, c’è qui un influsso del termine latino che può diventare lo spunto per costruire un quadro totalmente differente.  

In questo caso non c’è nessuna forzatura ma uno straordinario, quanto forse dimenticato, colpo d’ali di un mondo e di un tempo carico di attese, passate purtroppo solo negli archivi. 

Nel primo caso uno schiaffo al testo, nel secondo lo scaturire di una nuova feconda sorgente di significato. 

Gerusalemme nell’Apocalisse

La nuova Gerusalemme (Ap 21,1-22,15) 

Il Mantello della Giustizia – Giugno 2022

di Stefano Tarocchi · Il libro dell’Apocalisse di Giovanni, nel suo epilogo, si apre con il grande affresco che descrive la creazione nuova, al cui centro c’è la città santa, la nuova Gerusalemme, destinata ad assumere il ruolo di sposa del Cristo: «e vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima, infatti, erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (Ap 21,1-2).  

L’immagine si fa particolarmente forte, quando la voce che arriva dal trono di Dio così dice: «ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,3-4). 

È proprio la città di Gerusalemme che vorrei parlasse attraverso le parole eloquenti e tuttavia nascoste del libro dell’Apocalisse, e che si svelasse a noi attraverso la complessa simbologia che caratterizza il libro. 

E a questo punto che si svela il vero volto di Gerusalemme, la città-sposa del Cristo agnello, la donna-città, come la chiama lo stesso libro, che poi la descrive con cura, nei dettagli della sua perfezione: «poi venne uno dei sette angeli, che hanno le sette coppe piene degli ultimi sette flagelli, e mi parlò: «Vieni, ti mostrerò la promessa sposa, la sposa dell’Agnello». L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte. Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello. Colui che mi parlava aveva come misura una canna d’oro per misurare la città, le sue porte e le sue mura. La città è a forma di quadrato: la sua lunghezza è uguale alla larghezza. L’angelo misurò la città con la canna: sono dodicimila stadi; la lunghezza, la larghezza e l’altezza sono uguali» (Ap 21,9-16). 

Dopo la lunga descrizione della città Santa nei dettagli dal ricco e profondo simbolismo, emerge la sua caratteristica principale: nella città Santa, nella nuova Gerusalemme, non c’è il tempio che connotava la Gerusalemme della storia.  

Lo stesso signore e l’agnello, il Cristo, sono il suo tempio: «in essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello. Le nazioni cammineranno alla sua luce, e i re della terra a lei porteranno il loro splendore. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, perché non vi sarà più notte» (Ap 21,22-25). 

Nella città non c’è più posto per gli orrori né per tutte le azioni che vanno contro la parola di Dio; nella Gerusalemme nuova possono entrare solo coloro il cui nome è scritto nel libro della vita dell’agnello: «non entrerà in essa nulla d’impuro, né chi commette orrori o falsità, ma solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello» (Ap 21,27).  

Lo scritto di Giovanni ha parlato di questo elemento anche nella lettera alla chiesa di Sardi, la prima del settenario di lettere indirizzato alle sette chiese: «il vincitore sarà vestito di bianche vesti; non cancellerò il suo nome dal libro della vita, ma lo riconoscerò davanti al Padre mio e davanti ai suoi angeli (Ap 3,5).  

All’opposto, però ci sono coloro che, al posto di Dio, adorano la bestia, «il cui nome non è scritto nel libro della vita dell’Agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo» (Ap 13,8). La bestia è emanazione del grande drago rosso che fa guerra alla donna «vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle», apparsa come segno grande nel cielo (Ap 12,1). Un duplice filo percorre la storia, che lega i seguaci di Dio e li distingue dai seguaci della sua opposizione, «gli abitanti della terra il cui nome non è scritto nel libro della vita fino dalla fondazione del mondo» (Ap 17,8). 

Un altro dettaglio fondamentale vieni descritto nel lungo affresco dei capitoli finali del libro della rivelazione di Giovanni. Dal trono di Dio e dell’agnello esce un altro elemento straordinario: «un fiume di acqua viva, limpido come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello. In mezzo alla piazza della città, e da una parte e dall’altra del fiume, si trova un albero di vita che dà frutti dodici volte all’anno, portando frutto ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni. E non vi sarà più maledizione. Nella città vi sarà il trono di Dio e dell’Agnello: i suoi servi lo adoreranno; vedranno il suo volto e porteranno il suo nome sulla fronte» (Ap 22,1-4). 

Il panorama descritto si arricchisce di un altro elemento importante, riguardo a Gerusalemme. Nella creazione nuova, di cui essa Gerusalemme parte, non c’è più la tenebra né esiste la necessità di illuminare alcunché, perché il Signore stesso si incarica di illuminare i suoi eletti «non vi sarà più notte, e non avranno più bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà». Così gli eletti di Dio «regneranno nei secoli dei secoli» (Ap 22,5). 

A questo punto è l’Agnello stesso che prende la parola nel rivelarsi come colui che viene a breve, e che lascia come impegno la custodia delle parole profetiche del suo libro, del libro della sua rivelazione: «Ecco, io vengo presto. 

Beato chi custodisce le parole profetiche di questo libro» (Ap 22,7). Idealmente la fine del libro si congiunge al suo principio, dove si chiama «beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e custodiscono le cose che vi sono scritte» (Ap 1,3). 

A questo punto è il Cristo che riprende ancora la parola per esprimere il suo potere sulla storia, lui principio e fine di ogni cosa: «Ecco, io vengo presto e ho con me il mio salario [lett.: “la mia ricompensa”] per rendere a ciascuno secondo le sue opere.  Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine» (Ap 22,12-13). E poi continua: «beati coloro che lavano le loro vesti per avere diritto all’albero della vita e, attraverso le porte, entrare nella città» (Ap 22,14). E di questo lavare la veste si è già sentito: «questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (Ap 7,13-14)

Ma torniamo ancora alle parole di Gesù: è lui che ha inviato il suo messaggero per testimoniare il suo disegno sulle vicende umane: «io, Gesù, ho mandato il mio angelo per testimoniare a voi queste cose riguardo alle Chiese. Io sono la radice e la stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino» (Ap 22,16) 

Nell’oscurità delle vicende quotidiane che i discepoli del Vangelo attraversano in ogni tempo, compreso il nostro, risuona ancora stabile e forte il grido dello Spirito divina e della città-sposa, rafforzato dalle parole che confermano l’annuncio di questa profezia: «lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni!». E chi ascolta, ripeta: «Vieni!». Chi ha sete, venga; chi vuole, prenda gratuitamente l’acqua della vita» (Ap 22,17). 

In quest’ultimo passaggio si compie la promessa divina che diventa anche l’attesa, e nell’attesa la preghiera: «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20). È il celebre grido in lingua aramaica maranà thà, che troviamo anche in Paolo, in due varianti. Esso può essere tradotto «il Signore viene» oppure, appunto, come invocazione accorata: «Vieni, Signore» (cf. 2 Cor 16,22). 

Per la nostra cultura sembra difficile da afferrare il senso di una città come Gerusalemme, nel modo in cui la descrive il libro dell’Apocalisse, visto che siamo abituati a parlarne attraverso le vicende che ne caratterizzano la sua ricchissima e complessa storia, che si rivela a noi con tutte le sue contraddizioni passate e presenti.  

Se però facciamo lo sforzo di entrare dentro la simbologia del libro – l’Apocalisse, infatti, si esprime attraverso dei simboli non semplici, che vanno decifrati accuratamente, con infinita pazienza e senza cedere al rischio di chiudere il libro – riusciamo a comprendere un messaggio di una attualità sconcertante. Possiamo riassumerlo così: anche nelle vicende più oscure del cammino delle creature umane e di ciascuno di noi, quando e dove la presenza di Dio sembra essersi eclissata, essa è perennemente all’opera in attesa del ritorno del suo Cristo.

 

«Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli»: Gesù e Pietro

Gesù e i discepoli sul mare di Tiberiade 

Il Mantello della Giustizia – Maggio 2022

di Stefano Tarocchi · Il Vangelo di Giovanni si chiude con il racconto di tre manifestazioni di Gesù, due avvenute a Gerusalemme, il giorno di Pasqua e otto giorni dopo (capitolo 20), e una terza manifestazione avvenuta, sul mare di Tiberiade in Galilea (capitolo 21): è lo stesso evangelista a tenerne il conto: «era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti» (Gv 21,14). 

In origine, il Vangelo di Giovanni terminava col capitolo 20, con queste parole: «Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20,30-31). 

Da queste parole emerge un pensiero importante, che ritroveremo anche nella seconda finale, al termine del capitolo 21, che è aggiunto da uno scrittore anonimo dopo la morte dello stesso Giovanni. 

Nella terza manifestazione di Gesù dopo la risurrezione, troviamo una concentrazione precisa del narratore, prima su Simon Pietro, e poi Giovanni, anche se non è nominato: si fa capire al lettore del Vangelo che Giovanni è già morto a quel tempo, contrariamente all’idea che si erano fatti alcuni: «si era diffusa tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù, però, non gli aveva detto che non sarebbe morto» (Gv 21,23). 

Ma andiamo a leggere: «Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli.  Disse loro Simon Pietro: “Io vado a pescare”. Gli dissero: “Veniamo anche noi con te”. Allora uscirono e salirono sulla barca, ma quella notte non presero nulla. Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù.  Gesù disse loro: ““Figlioli, non avete nulla da mangiare?”. Gli risposero: “No”.  Allora egli disse loro: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete”. La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: “È il Signore!”. Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri. Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: “Portate un po’ del pesce che avete preso ora”. Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: “Venite a mangiare”. E nessuno dei discepoli osava domandargli: “Chi sei?”, perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti» (Gv 21,1-14). 

Sono tanti gli spunti che si ritrovano in questo testo, dal ritorno all’antico mestiere di pescatori, spinti dallo stesso Pietro, alla misteriosa manifestazione sulla riva del mare del Signore. La pesca notturna non ha dato frutto, ma la richiesta di Gesù («figlioli, non avete nulla da mangiare?») crea le condizioni per una pesca straordinaria, fuori da ogni abitudine: «gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». Il risultato è una quantità esorbitante di pesci: centocinquantatré grossi pesci. Lo scrittore sacro annota anche che la rete che li deve contenere non si spezza, come non è stata stracciata la tunica che i soldati hanno sottratto a Gesù sulla croce.  Così si legge di Pietro, che deve rimettersi la veste per andare incontro a Gesù, e lasciare il ruolo di pescatore, e degli altri discepoli: nessuno osa domandare a Gesù chi è, perché tutti sanno bene che è il Signore.

È proprio al termine di questo pasto – Gesù aveva preparato «un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane» – che accade qualcosa di inatteso: «quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pasci i miei agnelli”. Gli disse di nuovo, per la seconda volta: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pascola le mie pecore”.  Gli disse per la terza volta: “Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?”. Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: “Mi vuoi bene?”, e gli disse: “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene”. Gli rispose Gesù: “Pasci le mie pecore.  In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi”. Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: “Seguimi” (Gv 21,15-19). 

Simon Pietro, che voleva riprendere il mestiere di pescatore, e con lui alcuni altri discepoli del Signore (in tutto ne vengono rammentati altri sei), sono completamente superati dalle parole di Gesù.  

Per tre volte a Pietro, che aveva rinnegato tre volte il Signore, viene fatta una domanda: «mi ami tu più di costoro?». Il termine usato nella lingua greca permette anche un’altra traduzione: «mi ami tu più di tutte queste cose?». Non avrebbe, infatti, senso che Pietro si metta in competizione con gli altri discepoli. Per tre volte alla sua risposta positiva, Pietro si sente affidare il compito di pascere le pecore di Gesù.  

Ciò che è significativo in queste domande è la loro ripetizione, che riprende le vicende della passione, anche se sconcerta Pietro. Ma Gesù conferma che egli deve continuare il suo servizio e lo deve seguire: da giovane quando era capace di vestirsi da solo e poteva andare dove voleva, e da vecchio quando dovrà tendere le mani per essere vestito e portato dove non vuole. L’evangelista non ci lascia nel dubbio: «questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio».  

Quando vengono scritte queste parole Pietro ha già pagato con la morte sulla croce, secondo la tradizione a testa in giù, la sua appartenenza a Cristo e al Vangelo.  

Così, il messaggio del Vangelo arriva a noi, continuando quello che è cominciato in quel lontano mattino sul mare di Tiberiade: «questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera» (Gv 21,24).