Il giudizio finale di Gesù Cristo

«Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40)

Il Mantello della Giustizia – Dicembre 2023

di Stefano Tarocchi · “Quando sta per arrivare un uragano, gli esseri umani possono sapere del suo avvicinamento grazie a meteorologi lungimiranti, e possono anche prepararsi alla sua venuta o ignorare scioccamente il suo imminente arrivo. Ma non possono fare nulla per fermarlo, modificare il suo percorso, o cambiare la sua natura. Allo stesso modo gli esseri umani non possono fare nulla per “affrettare la venuta del Regno di Dio”, tantomeno “costruirlo” o “dargli forma”. Gesù non chiama i suoi seguaci a creare o formare il Regno di Dio. Egli li chiama perché rispondano alla sua venuta inesorabile e alla sua presenza parziale nel suo ministero. Essi possono farlo cambiando radicalmente la loro vita secondo gli insegnamenti di Gesù, il suo modo di interpretare e di mettere in atto la volontà di Dio nella Parola alla luce del compimento della storia di Israele… Questo fare la volontà di Dio secondo Gesù è inteso non come un esercizio di cieca obbedienza per amore dell’obbedienza, né come un’azione collaborativa che porterà il Regno. Come per l’alleanza con Abramo, Mosè e Davide, … e le speranze di un’alleanza rinnovata o nuova negli ultimi giorni, l’obbedienza a Dio espressa nell’alleanza include la promessa della ricompensa” (Meier). 

Veniamo così alla lunga sezione del giudizio finale che si distende al termine del capitolo 25 del Vangelo di Matteo (Mt 25,31-46), subito dopo la parabola dei talenti: siamo alla conclusione del discorso sugli ultimi tempi (Mt 24,1-25,46). 

L’insegnamento sul giudizio finale ha come due passaggi fondamentali. Il primo, più breve, ha come protagonista il Figlio dell’uomo tornato nella gloria che radunerà tutte le nazioni della terra, e separa definitivamente le pecore dai capri.  

Il secondo passaggio, invece, molto più articolato, ha come protagonista il re, davanti al quale stanno coloro che sono chiamati «benedetti» e quanti sono chiamati «maledetti», senza mezzi termini. In filigrana si percepisce la figura del Cristo, e la sua signoria sulla storia, come è descritta in 1 Cor 15 (cf. 1 Cor 15,28: «quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti»). 

Il legame fra la prima e la seconda sezione del discorso sul giudizio è dato indubbiamente da questo elemento di divisione, che nella narrazione è spiegato dettagliatamente. 

Contrariamente a quanto si sente talvolta proclamare, questa non è una parabola. Tutti i tempi al futuro che vengono usati in questa narrazione non appartengono al linguaggio consueto delle parabole, dove invece troviamo i verbi al presente o al passato.

È evidente dal racconto di Matteo che cosa costituisce il motivo del giudizio, sia per coloro che vengono chiamati alla destra del re, che per quanti sono alla sua sinistra. Gli uni e gli altri hanno compiuto, oppure hanno mancato, a quello che il re dice «“Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi” (Mt 25,34-36). La ragione di quest’invito fra i benedetti è estremamente chiara, non tanto ai chiamati ma solo agli occhi del re: «“in verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”» (Mt 25,40).  

Come è chiaro, ancora ai suoi occhi, quello che lo stesso re dice agli altri: «in verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. (Mt 25,45).  

In sostanza, è il bene compiuto oppure omesso a fare la differenza. Tuttavia, il re non è presente in prima persona, nel momento in cui a lui è stato fatto oppure non è stato fatto: ci sono solo, e anche «uno solo» di «questi miei fratelli più piccoli». 

Non è dato sapere se davanti allo stesso re anche i più impermeabili a compiere il bene avrebbero cambiato strada, né è necessario saperlo. A nessuno è consentito cercare anche solo per ipotesi un’altra trama nella narrazione evangelica.  

Dopo tutto il bene può essere fatto anche solo per convenienza, oppure per trovare un consenso davanti all’opinione pubblica, ammirata da tanto altruismo, sebbene solo apparente. È solo sull’apparenza che, ad esempio, i potenti di qualunque specie costruiscono le loro fortune: non è così difficile trovare qualche apparato per costruire una fake news, le armi di tanta comunicazione interessata, tipica questi nostri tempi ma non solo. 

Tuttavia, di fronte a quello che la narrazione evangelica di Matteo stabilisce come il termine di riferimento per essere giudicati degni di andare alla destra del re, e anche del figlio dell’uomo, non c’è scusa che tenga.  

Il bene è quello che si è compiuto soltanto quando si è stati capaci di accogliere Il Cristo negli ultimi. E non importa se siamo credenti oppure no. Importa solo sprecare il tempo che ci è dato per fare il bene, e come tutti i doni divini, non nasconderlo sottoterra, così da tenerlo per noi (cf. Mt 25,24-25).

Visita ad Istanbul al patriarca Bartolomeo

Visita al patriarca Bartolomeo

Il Mantello della Giustizia – Novembre 2023

 

di Stefano Tarocchi · Nel 2014, in corrispondenza della festa di sant’Andrea, fratello di Simon Pietro, che condusse dallo stesso Gesù, dopo essere stato chiamato per primo nel racconto del Vangelo di Giovanni, Papa Francesco fece una memorabile visita ad Istanbul dal patriarca Bartolomeo I.  

Quest’ultimo era stato il primo arcivescovo di Costantinopoli a partecipare di persona all’ingresso di Francesco nel ministero petrino. Quell’anno rimase memorabile anche perché nel maggio dello stesso anno il patriarca partecipò alla preghiera indetta da Francesco per la pace in Medio Oriente con Abu Mazen, leader di Hamas e Shimon Perez, al tempo presidente dello Stato di Israele – che riveste un profondo monito nella drammatica attualità di questi tempi di guerra – ed era anche intervenuto per la festa dei santi Pietro e Paolo. 

Sul modello questo duplice incontro, recentemente una delegazione fiorentina, guidata dal gran cancelliere della Facoltà teologica dell’Italia centrale, il cardinale Giuseppe Betori, di cui faceva parte lo scrivente come preside della medesima, ha restituito al patriarca Bartolomeo la visita che egli ha fatto a Firenze nello scorso maggio, quando ha ricevuto nella nostra facoltà il dottorato ad honorem in Sacra Teologia.  

Nel «cristocentrismo trinitario con cui Bartolomeo interpreta il rapporto tra Creatore, creatura e creazione» nel maggio scorso ha tenuto la sua lectio magistralis: «Il mondo come sacramento. Una visione teologica della creazione».  

Non importa aggiungere quanto questa lezione di Bartolomeo, magistrale nella circostanza, ma soprattutto vitale, è profondamente legata al magistero di papa Francesco, resa straordinariamente attuale da fenomeni meteorologici di rara intensità, che solamente stolti e ciechi analfabeti ed incompetenti negazionisti affidano alla casualità. Sto parlando di Laudato si’ (2015) e di Laudate Deum (2023)

E qui «la Chiesa è chiamata a fare tutto il possibile per proteggere la creazione di Dio da una crisi che si presenta primariamente antropologica» (Clemenzia). 

Al di là del protocollo, che in questi casi prevede una serie di incontri fra la delegazione e il Patriarca ecumenico, posso testimoniare di persona di avere raccolto la profonda umanità e il carisma straordinario di Bartolomeo I, che guida le comunità della Chiesa ortodossa come patriarca ecumenico.  

Volutamente non entro qui nelle questioni che concernono più direttamente vicende che superano l’orizzonte ecclesiale delle chiese d’oriente e in particolare del patriarcato ecumenico non ancora in comunione piena con Roma, anche sullo sfondo dei rapporti con il patriarcato della “terza Roma”. 

Ancora una volta abbiamo avuto la testimonianza toccante, direttamente dalle parole e dai gesti di Bartolomeo I, di come le due Chiese sorelle, quella legata a Pietro e alla sua tradizione, e quella legata ad Andrea, il protòclito, aspirino ad una comunione piena.  

Intanto la nostra Facoltà fiorentina sta mantenendo l’impegno preso pubblicamente nella circostanza solenne del dottorato di istituire una «nuova “Cattedra” ecumenica, denominata Chiesa e liturgia ortodossa, che trova il suo “ambiente” più appropriato di studio e di ricerca nell’approccio liturgico che caratterizza la licenza in Teologia dogmatica della Facoltà». 

La Parola di Dio e i nostri tempi

La parola di Dio nell’oggi della Chiesa

di Stefano Tarocchi · La recente festa di san Girolamo, che rimanda alla lettera scritta da papa Francesco nel sedicesimo centenario della morte del grande testimone cristiano, che portò a compimento la versione in lingua Latina delle Sacre scritture (la Vulgata), non può non farci tornare al testo del VI capitolo della Dei Verbum del Concilio Vaticano II. Quella sezione del documento aveva come titolo la Sacra Scrittura nella vita della Chiesa.

Nonostante la chiarezza cristallina del testo conciliare – basta pensare al n. 21 del documento: «è necessario che la predicazione ecclesiale, come la stessa religione cristiana, sia nutrita e regolata dalla sacra Scrittura» –, è evidente una sorta di analfabetismo sulle Sacre Scritture in larghi strati della vita della fede dei cristiani di oggi. Nella recensione ad una recente biografia su San Paolo, lo scrivente parla significativamente di «noia» nell’ascolto della seconda lettura di quanti partecipano – sempre meno nel post-Covid! – alla liturgia domenicale.  

Questo lega il fenomeno anche alla reale impossibilità di interpretare il testo paolino, soprattutto se frammentato in brevissime frasi che non ne facilitano il commento. Qualcuno imputa in gran parte questo fenomeno ad una sorta di reazione a un tipo di studio troppo tecnico, o eccessivamente specialistico. 

Forse la noia andrebbe estesa più che ai testi della parola di Dio, che possiamo ascoltare nelle nostre lingue a partire dal Concilio Vaticano II in una misura che supera di gran lunga le abitudini degli anni precedenti il Concilio, a commenti spesso improvvisati e senza un minimo di attualizzazione. 

Peraltro, non si tiene conto che questo percorso intorno alla Parola di Dio conosce un vertice fondamentale nella prima versione ufficiale in lingua italiana a partire dai testi originali, a cura della Conferenza episcopale italiana (1971-74). Questa traduzione è stata sostituita da quella del 2008. Ma a dire il vero, sostengono alcuni, quella precedente aveva creato un fenomeno molto importante: la memorizzazione di diversi testi, che in tal modo diventavano parte del patrimonio di fede del popolo di Dio, anche oltre l’abbandono progressivo della frequenza alla messa domenicale.  

Ora se è vero che il Concilio porta a compimento un percorso già iniziato alla fine del secolo XIX e continuato poi in quello XX, da Leone XIII a Pio XII, si dimentica che esiste di fatto nella comunità cristiana una vera e propria diaconia della Parola, come dice il libro degli Atti: «i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola» (At 6,2-4). 

La fede cristiana non è comunque la fede del libro: il Concilio parla di una straordinaria interazione fra eventi e parole, intrinsecamente fra sé connessi: l’«economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto». 

La fede cristiana non è nemmeno un fenomeno da iniziati: «Dio nella sacra scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana» (DV 12). Se la parola di Dio si è totalmente umanizzata, comprendere questo è ugualmente necessario per comprendere ciò che i testimoni hanno scritto di Colui che ha voluto rivelarsi attraverso gli scrittori sacri, che del resto il concilio chiama per la prima volta «veri autori». 

C’è pertanto un legame comune fra il Cristo e la comunità cristiana, e non può darsi in alcuno modo che alcuni, pur accettando Cristo, rifiutano la comunità dei suoi discepoli, la Chiesa. 

Basta pensare al solo fatto che nel Nuovo Testamento si sono conservati quattro Vangeli, il Vangelo quadriforme secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni. Questo Vangelo non può essere ricondotto a una sola narrazione né mai, nonostante alcuni tentativi, se ne è avuta la tentazione. 

Per questo, soprattutto quando si aprono i Vangeli colui che appare per primo non è il Cristo ma il testimone che parla di Lui.  

Per questo motivo l’«ignoranza delle scritture è ignoranza di Cristo», e ignorare Cristo significa ignorare la comunità dei suoi discepoli, la Chiesa. 

Se, infine, come dice ancora Dei Verbum la scrittura deve essere letta e interpretata alla luce dello stesso spirito mediante il quale è stata scritta (DV 12), principio che dobbiamo ancora una volta a San Girolamo nel commento alla lettera ai Galati è anche vero che «sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana è mai venuta una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono alcuni uomini da parte di Dio» (2Pt 1,20-21). 

A tutto questo si aggiunge un documento della Pontificia commissione biblica, l’Interpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993), dove si richiama che voler fare a meno dell’esegesi è illusione e mancanza di rispetto dei testi sacri. Dunque, una seria esegesi deve adempiere alla funzione vitale di contribuire a una trasmissione più autentica del contenuto della Sacra Scrittura. 

Ci aiuta a riflettere in questo senso anche il pensiero di papa Francesco in Evangelii Gaudium: «la Parola ha in sé una potenzialità che non possiamo prevedere. Il Vangelo parla di un seme che, una volta seminato, cresce da sé anche quando l’agricoltore dorme (cf. Mc 4,26-29). La Chiesa deve accettare questa libertà inafferrabile della Parola, che è efficace a suo modo, e in forme molto diverse, tali da sfuggire spesso le nostre previsioni e rompere i nostri schemi» (EG 22). 

Dai Vangeli alla tradizione cristiana: la trasfigurazione di Gesù

La trasfigurazione di Gesù nella tradizione legata a Pietro

Il Mantello della Giustizia – Settembre 2023

I lettori abituali dei Vangeli conoscono l’episodio della trasfigurazione di Gesù a Pietro Giacomo e Giovanni narrato in tutti e tre i vangeli sinottici (Mc 8,27-30; Mt 16,13,20; Lc 9,18-21), con caratteristiche comuni ma anche tipiche di ciascuno degli autori.  

Molto meno conosciuto è un riferimento di questo straordinario episodio ad un passaggio della seconda lettera di Pietro.  

Questo scritto fu composto da un cristiano anonimo del II secolo, che conosce le lettere di Paolo: si legge infatti: «la magnanimità del Signore nostro consideratela come salvezza: così vi ha scritto anche il nostro carissimo fratello Paolo, secondo la sapienza che gli è stata data, come in tutte le lettere, nelle quali egli parla di queste cose. In esse vi sono alcuni punti difficili da comprendere, che gli ignoranti e gli incerti travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina» (2 Pt 3,15-16)  

L’autore si ispirò alla figura e all’insegnamento di Pietro per trasmettere il suo messaggio ai suoi lettori, allo scopo di mettere in guardia i cristiani contro i falsi maestri che minacciavano la loro fede, negando fra l’altro il ritorno del Signore, visto l’apparente ritardo. 

Ecco il testo, inserito all’interno del suo immediato contesto: «fratelli, cercate di rendere sempre più salda la vostra chiamata e la scelta che Dio ha fatto di voi. Se farete questo non cadrete mai. Così, infatti, vi sarà ampiamente aperto l’ingresso nel regno eterno del Signore nostro e salvatore Gesù Cristo. Penso, perciò, di rammentarvi sempre queste cose, benché le sappiate e siate stabili nella verità che possedete.  Io credo giusto, finché vivo in questa tenda, di tenervi desti con le mie esortazioni, sapendo che presto dovrò lasciare questa mia tenda, come mi ha fatto intendere anche il Signore nostro Gesù Cristo. E procurerò che anche dopo la mia partenza voi abbiate a ricordarvi di queste cose. Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza.  Egli, infatti, ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: “Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento”. Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte» (2 Pt 1,10-18). 

Non è cosa semplice stabilire la fonte di questi due versetti (2 Pt 1,17-18), che riprendono la teofania del monte su cui Gesù si è rivelato ai suoi discepoli, già raccontata nei vangeli sinottici.  

Nel testo dei Vangeli l’episodio della trasfigurazione precede di poco (Mc 9,2 e Mt 17,1: «sei giorni dopo»; Lc 9,38: «circa otto giorni dopo») la professione di fede di Pietro, avvenuta nei villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, nel nord della Galilea. Gli evangelisti fanno emergere il riferimento alla teofania del battesimo, che apre la missione pubblica di Gesù e che presenta elementi analoghi (Mc 1,9-11; Mt 3,13-17; Lc 3,21-22).  

La teofania di Gesù sulla montagna apre invece il cammino verso Gerusalemme e la sua passione e risurrezione. Tanto è vero che in quel determinato contesto si susseguono gli annunci della passione (vedi Mc 8,31-38), che contengono ossia un modello di Messia molto diverso da quello che i discepoli vorrebbero attendersi. Questo è ancora più vero perché Gesù impone un silenzio sul suo messianismo, per evitare ogni equivoco devastante. 

Accanto a Gesù, i protagonisti sono proprio Pietro e due discepoli, Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo.  

Mentre però i Vangeli parlano di trasfigurazione, e si concentrano sul volto di Gesù e sulle sue vesti, il solo Luca parla della «gloria» (Lc 9,32), come la lettera di Pietro. Fra l’altro Pietro non è rappresentato come sconvolto da ciò che vede, ma molto attento all’evento: «non siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate ma perché siamo stati testimoni oculari – ecco il riferimento a Pietro – della sua grandezza» (2 Pt 1,16). L’autore anonimo dello scritto è attento a dire che l’avvenimento non è un racconto costruito da una mente unicamente umana, un mito – in greco c’è proprio questa parola! – come il prodotto di una intelligenza artificiale ante litteram.

Inoltre, la voce divina, descritta in quanto proviene dalla «maestosa gloria» (2 Pt 1,17), ossia dalla gloria della maestà divina, riprende un elemento della tradizione battesimale: Gesù non è soltanto il Figlio ma anche il Figlio amato.  

Inoltre, si parla della «potenza e la venuta – ossia della venuta potente – del Signore nostro Gesù Cristo» (2 Pt 1,16): è questo di fatto il significato della trasfigurazione com’è narrata nella lettera di Pietro. Per questa ragione alcuni autori hanno voluto vedere nell’episodio della trasfigurazione come una manifestazione di Gesù risalente alla fase che segue la risurrezione. 

Sulla medesima lunghezza d’onda, sempre all’interno della tradizione riferita a Pietro, troviamo anche un apocrifo, l’Apocalisse di Pietro – apocrifo greco della prima metà del II secolo, da cui deriva anche un testo del IV secolo scritto in lingua copta e di natura gnostica, che ambienta l’evento sul monte degli Ulivi, in cui Gesù riprendendo immagini della tradizione evangelica spiega il suo ritorno come Figlio dell’Uomo. La manifestazione si sposta quindi su un’altra montagna santa, dove due uomini gloriosi («Mosè, Elia, Abramo, Isacco, Giacobbe») si mostrano accanto a Gesù, che al termine viene innalzato al cielo dalla voce divina. 

C’è però anche un testo di non facile interpretazione che troviamo nel Vangelo di Marco: «in verità io vi dico: vi sono alcuni, qui presenti, che non morranno prima di aver visto giungere il regno di Dio nella sua potenza» (Mc 9,1). Il Vangelo è seguito da altre tradizioni della Chiesa primitiva. 

In conclusione, per rifarsi alla complessità di queste tradizioni possiamo intravedere un modo di trasmettere quanto è avvenuto a Gesù nella sua trasfigurazione, che apre all’altro tema maggiormente sentito al tempo – siamo agli inizi del secondo secolo – della definizione più esatta della figura di Gesù. In particolare, l’apocrifo attribuito a Pietro insiste sulla ricompensa ai giusti e la punizione ai malvagi.   

Proprio nell’Apocalisse di Pietro viene assegnato a Gesù un ruolo da parte di Dio, che va oltre la sobrietà della narrazione evangelica, per raggiungere quelle forme espressive tipiche delle apocalissi e dei tempi in cui vengono composte. Tutti questi testi, infatti, sono stati inseriti nel canone dei libri ispirati non senza molte difficoltà.