Il rischio di trasmettere le parole di Gesù come i detti di un saggio

«Chi accoglie voi accoglie me…»: il rischio di trasformare la parola del Vangelo in slogan

Il Mantello della Giustizia – Luglio 2023

 

di Stefano Tarocchi · Se ho imparato una cosa in oltre trent’anni di insegnamento della Sacra Scrittura, Nuovo Testamento prima allo Studio teologico e poi alla Facoltà teologica dell’Italia centrale, è quella di porgere un testo pienamente inserito nel suo contesto e idealmente completo a quanti devono leggerlo ed intenderlo, e magari spiegarlo.

Purtroppo, viviamo in anni di analfabetismo di ritorno, anche nello studio della teologia, qualcosa che si è accentuato in tempi di intelligenza artificiale che seguono il periodo nero del Covid, e anche la relativa facilità di scaricare dalla rete commenti biblici sinceramente sconcertanti.

Questa fenomenologia, estremamente complessa anche solo da afferrare, ha però una aggravante non banale, se all’omileta domenicale, com’è avvenuto fra le domeniche XI e XIII del tempo ordinario dell’anno A – quello attuale –, viene offerta un’antologia rarefatta del discorso missionario Gesù ai discepoli (Matteo 10).

L’evangelista Matteo parte dall’esperienza vitale di Gesù, che «percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni malattia e ogni infermità». È a questo punto che così prosegue: «vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!» (Mt 9,35-38).

In questa maniera il Vangelo secondo Matteo offre una sua ricostruzione della scelta all’interno del gruppo intero, di dodici discepoli, i cui nomi porge al suo lettore: «i nomi dei dodici apostoli – qui anticipa il futuro invio missionario – sono: primo, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello; Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello; Filippo e Bartolomeo; Tommaso e Matteo il pubblicano; Giacomo, figlio di Alfeo, e Taddeo; Simone il Cananeo e Giuda l’Iscariota, colui che poi lo tradì» (Mt 10,2-4).

Il racconto di Matteo si differenzia da quello della sua fonte più vicina, ossia che è l’evangelista Marco, che dapprima racconta la scelta dei “Dodici” (Mc 3,13-14), e poi, dopo circa tre capitoli (Mc 6,7), racconta il loro invio nella missione, nella quale gli stessi Dodici diventano gli inviati, ossia gli apostoli.

È vero che non è sempre chiara la differenza anche fra i commentatori abituali tra questa terminologia, che di fatto il solo Marco adopera in maniera realmente precisa. Si tende, cioè, a sovrapporre il termine Dodici a quello di apostoli e viceversa.

Chi fa, per esempio, l’omelia domenicale si trova di fronte (XI domenica “A”) a un primo accenno del senso di questo invio: «non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele. Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,5-8). Peraltro, nella domenica seguente (XII “A”) si fa un salto enorme, dal versetto 8 fino al versetto 23 dello stesso capitolo 10 di Matteo, dov’è illustrato con chiarezza il senso di questa missione.

Di fatto, a partire da alcuni semplici dettagli (il tipo di moneta che non deve essere nel bagaglio degli inviati, l’assenza del bastone) lasciano trasparire un ambiente missionario molto diverso da quello, dove ad esempio il bastone è essenziale.

In Mt 10,26 invece si intima ai discepoli per due volte il comando di «non avere paura», e lo si completa indicando chi dovrebbe essere l’oggetto di questa attenzione: «abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo» (Mt 10,28).

Forse il curatore del lezionario, in questa come nella domenica seguente (XIII “A”), si sente giustificato dall’aver premesso, senza degnarsi neanche di usare neanche una parentesi, una specie di premessa che si sostituisce alla parola di Dio: “Gesù disse ai suoi apostoli”, che sembra una sorta di invito al commentatore a far riferimento al testo completo. Ma questo invito sarà accolto?

E una volta ancora, nella domenica XIII “A”, sono stati omessi altri quattro versetti per arrivare finalmente alla conclusione: i vv. 37-42.

È evidente che tutto è affidato alla buona volontà del commentatore, ma anche alla saggezza di quanti ascoltano queste parole e la loro spiegazione. Questo non impedisce tuttavia di creare una obiettiva difficoltà nel commentare un testo così ricco, inquadrandolo pienamente nel suo contesto – Matteo scrive a comunità che si sono stabilita anche nelle piccole città, a differenza del racconto di Marco, che ha in mente i soli ambienti rurali, e in primo luogo pensa a una missione esclusivamente all’interno del popolo d’Israele – con il rischio di rendere del tutto marginale il pensiero di Gesù, che, mosso da compassione verso le pecore senza pastore, decide di creare intorno a sé un gruppo di discepoli che porta a tutti, nella libertà di ciascuno, il suo annuncio di salvezza, il vangelo.

È pur vero che la parola di Dio, anche se così frammentata, è pur sempre efficace; ma un tale approccio rischia di isolare determinati spunti e di lasciar trasparire l’immagine di un Gesù che parla attraverso soltanto pillole di saggezza, come determinati guru, anziché rinviare in maniera straordinaria al suo essere, attraverso i discepoli, anche lui l’inviato, ossia l’apostolo, ma del Padre, come dice la lettera agli Ebrei: «Gesù, l’apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo» (Eb 3,1).

Gesù e lo Spirito Santo

«Come dice la Scrittura: dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva» (Gv 7,37-39)

Il Mantello della Giustizia – Giugno 2023

di Stefano Tarocchi – La liturgia della celebrazione della vigilia del giorno di Pentecoste usa un tratto del Vangelo secondo Giovanni estremamente breve, ma altrettanto complesso, riferito al culmine della festa delle Capanne (cf. Gv 7,2): «nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù, ritto in piedi, gridò: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva».

Qui il vangelo di Giovanni enuncia un principio straordinariamente importante: l’evangelista si rivolge ai suoi lettori per dare l’interpretazione del gesto di Gesù e della Scrittura che viene invocata a riprova: «Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato» (Gv 7,37-39).

Lo Spirito santo evocato dal dono dell’acqua viva – e che il vangelo paradossalmente dice che ancora non c’era – risolve un problema enorme: chi è la fonte dei fiumi di acqua viva?

Anche se per un lettore di oggi non sembra troppo difficile da capire, il testo così come l’abbiamo letto indica Gesù come la fonte dell’acqua viva.

Ma il testo greco del Vangelo può essere tradotto in un altro modo, che favorisce l’interpretazione che la fonte dell’acqua è lo stesso credente: «Se qualcuno ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me (come dice la Scrittura), “Dal suo interno sgorgheranno fiumi di acqua viva”». Questa punteggiatura è sostenuta da Origene e dalla maggior parte dei Padri orientali.

Torniamo però all’interpretazione più comune, che risale già al II secolo, quindi poco dopo la stesura finale del Quarto Vangelo. Essa ha senz’altro una conferma nello stesso vangelo, a partire da quando Gesù dice alla donna Samaritana: «se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva?  Sei tu forse più grande di nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?».  Gesù le risponde: “Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,10-14).

Anche in Gv 19,34 si parla dell’acqua, che insieme al sangue, viene dal costato di Gesù trafitto dal soldato. Infine, nel libro dell’Apocalisse si legge di «un fiume d’acqua viva, limpido come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello» (Ap 22,1).

Ma quale passo della Scrittura viene citato al v. 38? È significativo notare che le parole citate in Giovanni non rispecchiano esattamente nessun passo del testo ebraico o dei Settanta, per cui i commentatori hanno dovuto usare un certo impegno nel rintracciare passi almeno simili. L’edizione più nota del testo originale dei Vangeli inserisce a margine un significativo: “da dove?”. E richiama Isaia 43,19-20; Ezechiele 47,1-12; Gioele 4,18; Proverbi 18,4; Cantico 4,5 (alla cui lettura rimandiamo)

Durante la festa delle Capanne, le parole pronunciate da Gesù diventano come la drammatizzazione all’interno di una cerimonia solenne. In ognuna delle sette mattine precedenti la fine della festa una processione scendeva alla fonte di Gihon, sul lato sud-est della collina del tempio, quella che forniva le acque alla piscina di Siloe.

Lì un sacerdote riempiva d’acqua una brocca d’oro, mentre il coro ripeteva Is 12,3: «con gioia attingerete acqua dai pozzi della salvezza». Poi la processione saliva al Tempio attraverso la Porta dell’Acqua. La folla che accompagnava la processione portava nella mano destra un mazzo di ramoscelli di mirto e di salice, legati con una palma (una reminiscenza dei rami usati per costruire le capanne), e nella mano sinistra un limone o un cedro che serviva come segno del raccolto. Inoltre, si cantavano i salmi dell’Hallel (113-118). Quando raggiungevano l’altare degli olocausti, davanti al Tempio, tutti camminavano intorno all’altare e agitavano i ramoscelli, cantando il Salmo 118. Poi il sacerdote saliva la rampa che portava al Tempio verso l’altare per versare l’acqua in un imbuto d’argento, da cui scorreva nel terreno. Il settimo giorno si faceva per sette volte questo percorso intorno all’altare.

Le loro preghiere per l’acqua erano state esaudite in un modo che non si aspettavano; la festa che conteneva in sé la promessa del Messia si era compiuta. Zaccaria aveva predetto che da Gerusalemme sarebbero sgorgate acque vive: «in quel giorno acque vive sgorgheranno da Gerusalemme e scenderanno parte verso il mare orientale, parte verso il mare occidentale: ve ne saranno sempre, estate e inverno» (Zc 14,8). Ezechiele aveva visto un fiume sgorgare dalla roccia situata sotto il Tempio: «mi condusse poi all’ingresso del tempio e vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso oriente, poiché la facciata del tempio era verso oriente. Quell’acqua scendeva sotto il lato destro del tempio, dalla parte meridionale dell’altare» (Ez 47,1).

Secondo i commentatori, è in questo momento solenne delle cerimonie del settimo giorno che Gesù si alza nel cortile del tempio per proclamare solennemente di essere la fonte dell’acqua viva. Ma ora è Gesù che dice che questi fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo stesso corpo, quel corpo che è il nuovo Tempio (Gv 2,21).

Nel cammino del deserto che questa festa ricordava, Mosè aveva saziato la sete degli israeliti colpendo una roccia dalla quale faceva sgorgare fiumi di acqua viva. Ora chi ha sete non deve far altro che venire a Gesù e, credendo, avrà l’acqua della vita. Come la manna data ai loro antenati nel deserto non era il vero pane del cielo (Gv 6,32), così l’acqua della roccia era solo una prefigurazione della vera acqua della vita che sgorga dall’Agnello (cf. Ap 7,17: «l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita»).

Se l’acqua è simbolo della rivelazione che Gesù dà a coloro che credono in lui, è perciò anche il simbolo dello Spirito che Gesù risorto darà, come precisa il v. 39. Al momento della sua morte Gesù consegnerà lo Spirito (Gv 19,30), così come l’acqua uscirà dal suo fianco, aperto dalla lancia del soldato (Gv 19,34). 1 Giovanni 5,7 riunisce i temi dello Spirito e del sangue e dell’acqua dal costato di Gesù: «Tre sono i testimoni: lo Spirito, l’acqua e il sangue; e questi tre sono concordi».

È appunto per questo che una lettura così evocativa viene assegnata alla liturgia della Vigilia di Pentecoste.

Gesù, il pastore vero

«Io sono la porta delle pecore» (Gv 10,7) 

Il Mantello della Giustizia – Maggio 2023

di Stefano Tarocchi · Nel tempo di Pasqua, tre domeniche dopo la festa, la liturgia presenta un brano tratto dal decimo capitolo del Vangelo secondo Giovanni. Si tratta del discorso di Gesù che ha il suo culmine nel versetto 11, quando Gesù dice: «Io sono il buon pastore». E aggiunge: «il buon pastore – il pastore vero – dà la propria vita per le pecore». (Gv 10,11). 

Il tema, anche se svolto in maniera estremamente originale dal quarto Vangelo, è perfettamente coerente con l’attività di Gesù, per esempio quando leggiamo che, dopo una traversata sul mare, «sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose» (Mc 6,34).  

Questo per non parlare delle due parabole, dei Vangeli sinottici: Matteo 18,12-13 (la pecora che si è smarrita) e Luca 15,4-6 (la pecora che il pastore ha perduto). 

Ma è proprio a causa di Giovanni che la quarta domenica di Pasqua è conosciuta come la domenica del buon Pastore

Leggiamo il testo del Vangelo: «in verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei».  

Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlasse loro».  

Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore.  Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti, ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza. Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore» (Gv 10,1-11). 

Qui vorremmo mettere in luce un aspetto particolare che configura la persona di Gesù, pastore vero: egli è la porta delle pecore, ed è pastore proprio perché è anche la porta.  A giudicare dal termine che è stato scelto in greco, si tratta della porta della casa.  

Se è vero, come annota il Brown, che in alcune frange religiose il titolo di “porta” è stato applicato a leader religiosi, per indicare la guida alla conoscenza, questo non vale per il Vangelo. 

Possiamo spiegare la parola dell’uso del pastore di dormire all’ingresso dell’ovile, e quindi dell’agire sia come porta sia come pastore. 

Questo indebolisce molto l’importanza della figura del guardiano (Gv 10,3), messa in luce dall’interpretazione del primo cristianesimo: ciò che è importante è solo il pastore, quello vero. Gesù è la porta: dunque, «se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10,9).   

Gesù è pastore e perciò «le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei» (Gv 10,3-5).  

La spiegazione di questo elemento ci viene poco più avanti: «tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,8-10). Ed è la vita donata dal pastore vero, perché Gesù è colui che «dà la propria vita per le pecore» (Gv 10,11). 

Vieni così a crearsi un rapporto straordinario fra le pecore e il pastore: questi conosce una per una le sue pecore e le chiama per nome, ed esse ascoltano la sua voce. Pertanto, fuggiranno dagli estranei che si evidenziano soltanto per un potere totalmente negativo nei confronti delle pecore: «rubare, uccidere e distruggere» (Gv 10,10). 

A questi estranei si aggiunge anche il mercenario, colui che è stipendiato per guidare delle pecore che non gli appartengono, e che le abbandona proprio quando il loro nemico naturale, il lupo, le assalta (così Gv 10,12). Il mercenario, dunque, è descritto come la totale opposizione al pastore: colui che fallisce proprio nel momento decisivo della sua azione, né tantomeno dà la sua vita. 

Questo ancor più vero perché Il Cristo che è il pastore quello vero, non ha solo le pecore del suo gregge, ma anche altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore» (Gv 10,16). Al popolo di Israele, si aggiungono anche i popoli pagani, 

In questa descrizione così attenta della figura del Cristo vero pastore, si arricchisce di una nuova precisazione, che dal rapporto fra lui e le sue pecore si spinge ad approfondire quello che c’è fra lui e il padre: «io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore» (Gv 10,14-15).  

Tutto questo è vero, perché a differenza di altre regioni geografiche, le pecore di quella terra pascolano insieme ad altre pecore, greggi con greggi: perciò il pastore deve utilizzare la sua “familiarità” con le singole pecore – letteralmente chiamare “per nome le sue pecore” – per riprendersi le sue pecore che pascolano insieme ad altri greggi. Ossia, come dice Giovanni, ogni pecora «entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10,9): la pienezza della vita, che ricevono grazie al pastore vero. 

In altre parole, se Cristo è la porta, egli è al tempo stesso la chiave per raggiungere il Padre.  

È esattamente questo che Gesù più avanti nel Vangelo dice a Tommaso, che gli chiede: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?» (Gv 14,5): «io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6). 

È a questo che conduce la sua azione come porta delle pecore e come pastore. 

“Lazzaro, vieni fuori!”

Risurrezione di Lazzaro  

 

di Stefano Tarocchi · Il villaggio di Betania, che il Vangelo di Giovanni chiama il «villaggio di Maria e di Marta», diventa centrale nella sezione conclusiva del Vangelo secondo Giovanni, con la cena «sei giorni prima della festa di Pasqua».

Dice il Vangelo che «Gesù andò a Betania, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti.  E qui fecero per lui una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali» (Gv 12,1-2; cf. 12,1-8). Fu allora che Maria cosparge i piedi di Gesù di olio profumato di vero nardo, suscitando la reazione di colui che sarà il traditore «perché non si è venduto questo profumo per trecento denari e non si sono dati ai poveri?» (v. 5). Come annota l’evangelista, a Giuda «non … importava dei poveri, ma perché era ladro e siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro» (v. 6).  

Questa cena precede il grande ingresso di Gesù a Gerusalemme, che apre gli eventi che condurranno alla sua passione, morte e risurrezione.  

Ma a Betania è ambientato anche un altro avvenimento: stavolta il protagonista è Lazzaro (Gv 11,1-45). Il vangelo dice che «Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro» (v. 5). E Marta e Maria mandano a dire a Gesù: «Signore, colui che tu ami è malato» (v. 3). 

L’evangelista però insiste sul ritardo di Gesù ad accogliere subito l’invito: «questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato» (v. 4). 

Così la partenza di Gesù per la Giudea avviene dopo due giorni: questo genera terrore nei discepoli, di fronte al rischio di dover affrontare una violenza contro di Gesù, come in precedenza era avvenuto a Gerusalemme. Gesù dice, fra l’altro, che «Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato, ma io vado a svegliarlo» (v. 11).  

È ciò che desta la perplessità nei discepoli: per loro, se Lazzaro è addormentato, vuol dire che non sta realmente male. Gesù afferma chiaramente: «Lazzaro è morto». E i discepoli sono convinti di andare incontro alla morte insieme a Gesù in quella terra dove ha rischiato di essere lapidato (Gv 8,59). Gesù però ha detto altro: «io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!» (v. 15). La sua vita, infatti, si svolge sotto la potenza divina: finché non sarà compiuta la sua missione, i nemici non potranno vincerlo   

A questo punto il racconto insiste sulla duplice osservazione delle sorelle, prima Marta, e poi Maria: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto» (vv. 21.32).  

Gesù, proprio a Marta, annuncia che Lazzaro risorgerà, ma senza aspettare l’ultimo giorno. Questa è la certezza che gli dichiara la donna, che tuttavia non nasconde la fede nell’azione di Gesù: «anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà» (v. 22).

Qui avviene la nuova rivelazione di Gesù: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno» (v. 25-26), e qui, in questo preciso momento, Marta riafferma la sua fede: «sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo» (v. 27). 

Ora la morte di Lazzaro è così drammatica che mentre Maria, l’altra sorella si fa incontro a Gesù, avvertita di nascosto da Marta, non appena questi la vede piangere, e anche i Giudei andati con lei, prova una così profonda commozione che anche Gesù si scioglie in un pianto totale (v. 33).  

È vero che questo pianto viene percepito come l’amicizia per Lazzaro, ma anche con la perfida verità di coloro che provano a rovesciare il senso delle sue azioni: dopotutto, secondo i detrattori, Gesù che ha aperto gli occhi al cieco (cf. Gv 9) poteva risparmiare questa morte (cf. v. 37). 

A questo punto tutto si svolge con una rapidità, tale da mettere in luce la potenza del Figlio di Dio. C’è una pietra che chiude la grotta, laddove si trova il sepolcro di Lazzaro – come davanti al sepolcro di Gesù –, e sono trascorsi già quattro giorni: tempo sufficiente perché la morte operi la sua azione devastatrice. Ma la potenza del figlio di Dio è tale anche di fronte a quell’evento tragico che il suo pianto manifesta, nonostante la certezza di ciò che sta per accadere, e che è rivelato nella preghiera di ringraziamento al Padre di Gesù, e dalle parole che restituiscono Lazzaro alla vita e ai suoi affetti: «Lazzaro, vieni fuori» (vv. 41-43).  

Il racconto di uno dei “segni” del Signore che il Vangelo di Giovanni trasmette ai suoi lettori, ciò che Gesù compie e il modo con cui egli agisce, è narrato perché si operi la fede. Ossia, perché tutti credano che lui è l’inviato del padre. 

Così l’evangelista Giovanni registra la fede di molti dei Giudei che erano venuti da Maria e che hanno visto ciò che il Cristo ha compiuto, ma anche il movimento operato da dai farisei sulla testimonianza di quanti hanno partecipato. Essi insistono perché quest’uomo, l’inviato di Dio, vada fermato.  

Uno degli esponenti più autorevoli del sinedrio, Caifa, sommo sacerdote in quell’anno, «profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (Gv 11,51).  

Si potrebbe definire un perfetto ragionamento machiavellico ante litteram, aggravato dall’insistenza del Vangelo su questo dettaglio: Caifa, infatti, non parlava da sé stesso, ma nella sua funzione di sommo sacerdote. Accade così che «da quel giorno decisero di ucciderlo» (Gv 11,53). 

Gli avvenimenti prendono la piega che sappiamo, ma nel racconto del quarto Vangelo troviamo la presa d’atto di Gesù circa la morte che lo attende, in quella Pasqua che sarà l’ultima della sua vita terrena. Quando dei Greci, ebrei della diaspora, saliti a Gerusalemme per la Pasqua, si avvicinano prima a Filippo, e poi ad Andrea, essi portano una richiesta: «Signore, vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,21). 

Gesù così risponde: «è venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà» (Gv 12,23-26).  

E qui si innestano dei probabili accenni a ciò che accadrà nel Getsemani prima dell’arresto di Gesù, nella rilettura tipica del Vangelo di Giovanni, che conosce quanto scrivono i primi tre Vangeli, ma li elabora nella sua maniera: «adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato».  

La risposta di Gesù conduce però ancora più lontano: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori» (Gv 12,27-31). 

E si rivela così il senso della morte che attende Gesù e anche il modo in cui avverrà: «io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me. Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire» (Gv 12,23-33).