Pilato tra “storia e memoria”

pilatodi Stefano Tarocchi • Nella conclusione del recente saggio sul prefetto della Giudea (Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria, Einaudi, Torino 2016), Aldo Schiavone, giurista e storico, scrive di essere impressionato da «un’insuperabile ambiguità che si riproduce di continuo intorno a Pilato, appena se ne parli; quasi la sua cifra non potesse essere altro dall’indefinito, dalla nebbia; e aleggiasse su di lui l’ombra di un non detto, di un taciuto che intercetta ogni volta la luce, o la deforma» (143). Si tratta dell’uomo, non a caso, che Tertulliano definiva «un cristiano nel cuore» (pro sua conscientia christianus: Apologeticum, 21).

Pilato viene raccontato in cinque intensi capitoli dal Schiavone: 1) In una notte nel mese di Nisan; 2) La Giudea romana e il lavoro del quinto prefetto; 3) Dio e Cesare; 4) Il destino del prigioniero; 5) Nell’ombra.

A parte il breve capitolo finale, che fa pendant con la stringata introduzione, il percorso segue il cammino tracciato dai Vangeli, con l’eccezione del capitolo 3: una preziosa digressione sul ruolo del prefetto della Giudea e di Pilato in questo ruolo.

Tuttavia nessuna meraviglia se l’uomo che fu, sotto il principato di Tiberio, il quinto prefetto della Giudea, in carica dal 26 al 36 d.C. (e che aveva a disposizione un’unità di cavalleria e cinque coorti di cavalleria), non era molto amato nella terra di sua pertinenza. Peraltro anche se Tacito, usando un felice anacronismo lo chiama “procuratore”, il titolo di prefetto è testimoniato un ritrovamento di una iscrizione – usata originariamente per una delle torri del porto di Cesarea Marittima, sua residenza insieme al grosso della guarnigione, dedicata all’imperatore Tiberio, e poi riutilizzata nel rifacimento del teatro della città. Una lettera del re Erode Agrippa I (in Filone, Legatio ad Caium, 38) lo descrive come «implacabile, senza riguardi, ostinato». Sappiamo anche di stragi fatte compiere dai suoi soldati tra le folle: una, in occasione dei lavori dell’acquedotto del tempio di Gerusalemme, che Pilato voleva finanziare con il tesoro del Tempio (Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche, XVIII, 3, 2); un’altra in circostanze ignote, come rammenta il terzo Vangelo (Lc 13,1: «quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici»), una terza a danno dei Samaritani, che si accompagna a quando, con le insegne imperiali e l’effige dell’imperatore, oltre che il suon nome divino, fece ingresso nel tempio di Gerusalemme. L’azione contro i Samaritani segnò la sua rovina: essi infatti reclamarono presso Vitellio, legato romano in Siria (per lui c’erano a disposizione quattro legioni: la VI, la X [Fretensis], la III e la XII) da cui Pilato dipendeva, e questi lo sospese dalla sua carica, inviandolo a Roma a rispondere del suo operato al tribunale di Tiberio. Prima che arrivasse a Roma Tiberio era già morto, e Pilato cadde nell’oblio.

Più che mai sembra decisiva la distinzione dell’autore tra storia e memoria: la memoria religiosa (ma anche culturale) «è più orientata al significato e alla comprensione degli eventi cui allude … che alla registrazione del passato in quanto tale». Questo perché la stessa memoria è la generatrice del percorso che conduce alla ricostruzione storica. Lo storico perciò distingue, tra i nomi: per lui Giuda e Barabba sono per sé solo figure della “memoria” che ci ha dato i Vangeli. Gli altri sono totalmente personaggi della storia: Anna, Caifa, Erode Antipa, Giuseppe di Arimatea, e soprattutto Pilato.

Ma la storia di Pilato può essere ricostruita solo a partire dalle testimonianze evangeliche dei tre Vangeli Sinottici, e soprattutto di Giovanni, nei rispettivi racconti della passione.

Tutte le fonti confermano che «l’arresto e la condanna di Gesù avevano avuto un impulso giudaico, all’interno dell’élite sacerdotale» (p. 72): l’autorità romana e quella giudaica hanno proceduto fianco a fianco. Questo è confermato dal fatto che nelle accuse mosse Gesù ci fu uno slittamento dal piano religioso a quello politico, che prevedeva il ben noto principio dell’autonomia delle regioni amministrate da Roma (suis moribus legibusque suis uti). Così il Vangelo di Giovanni: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge!» (Gv 18,31) e l’apodittico: «noi abbiamo una Legge e secondo la Legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio» (Gv 19,7).

Pilato venne usato per costringerlo a ratificare la condanna già stabilita dai maggiori esponenti del giudaismo: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare» (Giovanni 19,12). Era questo l’unico motivo per portare Gesù alla morte, senza invocare poter invocare a Gerusalemme la Lex Iulia maiestatis che a Roma puniva chi avesse voluto sostituirsi al potere costituito proclamandosi «re dei Giudei».

Ma Gesù, pur accusato di essere re, non ha un regno in questo mondo (cf. Giovanni 18,36). Schiavone indulge al vezzo di fare un po’ di teologia (pp. 86-87), e, per affermare il monoteismo, costruisce quasi una natura “binitaria” di Gesù, in bilico tra lui e il Padre: l’unico punto, a mio avviso, discutibile del saggio, che richiama un altro elemento binario, Dio e Cesare, e quindi la lotta dei discepoli di Cristo contro il potere del cesare di turno.

Schiavone smonta anche la memoria trasmessa dal solo Matteo del gesto per cui Pilato è giustamente famoso, l’atto di lavarsi le mani (Matteo 27,24), che a suo avviso diventa «il punto zero nella genealogia dell’antisemitismo cristiano» (p. 111), per approfondire il racconto del famoso “processo”, che l’autore nega fosse un procedimento vero e proprio, con una precisa procedura. Schiavone ha forti dubbi anche sull’invio da Pilato ad Erode, l’Antipa, come narra Luca (23,6-12), che vorrebbe addirittura costruire un’amicizia di comodo fra il tetrarca e il prefetto.

Del resto non era un processo nemmeno l’interrogatorio davanti ad Anna e poi a Caifa. Davanti a Pilato non c’era un cittadino romano, che poteva invocare una garanzia dovuta al suo stato giuridico o al suo patrimonio: c’era solo un predicatore dalle umili origini. Questo non impedisce di frapporre fra Gesù e Pilato la celebre domanda «che cos’è la verità», la cui analisi lascia trasparire anche in Schiavone una certa simpatia per il prefetto, al pari di Tertulliano e della chiesa Ortodossa Etiope che annovera Pilato tra i santi, per quest’ultimo, evidentemente affascinato dall’uomo che ha davanti (“quid est veritas?” “Est vir qui adest).

Schiavone parimenti insiste sul fatto che non solo Giovanni, ma anche Matteo e Marco finiscono per incolpare l’intero popolo ebraico dell’intera responsabilità del crimine (p. 113), scagionando (soprattutto Marco!) Pilato e il potere di Roma da ogni responsabilità sulla morte di Gesù. Se il Giudaismo ha manovrato perché Pilato pronunci la condanna, nonostante il tentativo in extremis di far appello alla consuetudine di liberare un prigioniero, non è il Giudaismo delle folle e del popolo, pur richiamate nella narrazione ma quello dell’intellighenzia del potere politico-religioso. Tutto sommato anche Pilato, nella sua ineffabile ambiguità, ne è ugualmente vittima.

«Ti sei rivelato a noi e non al mondo?»

3-1-660x350di Stefano Tarocchi • La VI domenica del Tempo Pasquale introduce il testo del Vangelo di Giovanni – peraltro omessa dal libro liturgico – con la domanda dell’apostolo Giuda (si noti, «non l’Iscariota»), che si rivolge a Gesù: «come mai ti sei rivelato a noi e non al mondo?».

È noto l’autorivelazione del Cristo è definita nel Vangelo di Giovanni come luce: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12) e «Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre (Gv 12,46). Si riprende il medesimo tema quando il Vangelo dice: «Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo» (Gv 9,5).

La stessa presenza del Cristo, come Verbo, era già definita in questo modo: «veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,9). Oppure: «la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvage» (Gv 3,19).

Del resto anche la prima lettera di Giovanni scrive: «Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che noi vi annunciamo: Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna. Se diciamo di essere in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, siamo bugiardi e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, il Figlio suo, ci purifica da ogni peccato» (1 Gv 1,5-7).

Tuttavia, nel momento in cui sta per arrivare la sua passione, quella che il Vangelo chiama “glorificazione”, la rivelazione del Cristo avviene solo davanti ai discepoli e non più al «mondo». In sostanza si potrebbe sostenere che il «mondo», creato da Dio per mezzo del Verbo, si è ribellato in maniera radicale a Dio e al suo Figlio, il Verbo che «era nel mondo». «Il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto» (Gv 1,10). Ma lo stesso Verbo «a quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (Gv 1,12-13).

Non è un caso che il tema del «mondo» dòmini la scena nel Quarto Vangelo, il Vangelo di Giovanni, non fosse altro che numericamente, per le sue settantotto ricorrenze (!) sulle cent’ottantasei dell’intero Nuovo Testamento. Potremmo aggiungerne anche trenta, nelle prime due lettere dello stesso Giovanni.

Qui tenterò di riprendere una parte dei testi in questione per definire una immagine della potenza divina che non viene sopraffatta dalle tenebre, la condizione negativa dell’umanità in quanto opposta a Dio: «la luce splende nelle tenebre» e tuttavia «le tenebre non l’hanno vinta» (Gv 1,5). Che è come dire che il Cristo si è rivelato davanti alla condizione umana, che lo respinge ma non è capace di sconfiggerlo.

La totale opposizione tra il «mondo» e il Padre è espressa quindi con estrema chiarezza: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,16-17). Ma il Vangelo dice di più: Dio ha amato quella realtà (il «mondo») che lo ha rifiutato, lasciando aperto la strada a quanti si sono posti in una posizione diametralmente opposta: non di rifiuto ma di ascolto, di accoglienza.

A quel mondo che si oppone a Dio, questi offre un’altra strada, come emerge dalle parole con cui il Battista annuncia Gesù: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1,29). Si parla proprio al singolare («il peccato»), perché esso riassume ogni altra colpa. Anche la prima lettera dell’apostolo Giovanni precisa: «in questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1 Gv 4,10).

E non è un’opposizione formale tra Dio e quanti gli si oppongono, se Gesù dice ai discepoli «il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di esso io attesto che le sue opere sono cattive» (Gv 7,7; letteralmente: «maligne», come il nemico di Dio e delle sue creature), mostrando qui una nuova declinazione della sua missione di luce. Questo si dice con chiarezza anche nella guarigione dell’uomo cieco: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi» (Gv 9,39).

Perciò i discepoli devono sapere che «se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma vi ho scelti io dal mondo, per questo il mondo vi odia» (Gv 15,18-19). E più avanti Gesù aggiunge: «Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me, ed essi hanno osservato la tua parola. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi. Ma ora io vengo a te e dico questo mentre sono nel mondo, perché abbiano in sé stessi la pienezza della mia gioia» (Gv 17,6.9.11.13).

Nella stessa preghiera che Gesù pronuncia avanti la sua passione, mentre si trova ancora con i discepoli egli dice: «Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse. Io ho dato loro la tua parola e il mondo li ha odiati, perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; [prego] perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me. Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che tu mi hai dato; poiché mi hai amato prima della creazione del mondo. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto, e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato» (Gv 17,5.14-16.18.21.23-25).

Pertanto il «mondo», che è stato oggetto dell’amore di Dio e del Cristo, una volta che ha scelto definitivamente la sua strada non può più cambiare il proprio cammino; perciò il Cristo, da un certo momento in poi della sua missione, prega per i discepoli e non più per coloro che si sono radicalmente autoesclusi dalla salvezza. Ne è conferma il fatto che in precedenza il vangelo dice di Gesù: «non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo» (Gv 12,47). Per questo aggiungerà ai discepoli: «Vi ho detto questo perché abbiate pace in me. Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33).

In conclusione potremmo chiosare con le stesse parole del Vangelo, nella sua conclusione definitiva: «Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere» (Gv 21,25). La potenza del Cristo, che ha vinto la sua opposizione radicale nella sua gloria, cioè la passione e la risurrezione, riduce il mondo, stavolta in senso neutro, a semplice contenitore delle sue parole.

Il racconto di Matteo della Risurrezione: rapporto su (almeno) un tentativo di manipolazione

PIERO-SIdi Stefano Tarocchi  Il racconto matteano della Risurrezione è a mio avviso un esempio straordinario di come si può (tentare di) gestire una notizia scomoda e addirittura (tentare di) manipolarla per i propri fini. E non solo la notizia, ma lo stesso evento della risurrezione.

Il vangelo di Matteo è l’unico che rompe il silenzio sul giorno successivo alla sepoltura di Gesù, a rigore di logica il sabato che coincide con la Pasqua ebraica, quando racconta: «il giorno seguente, quello dopo la Parasceve, si riunirono presso Pilato i capi dei sacerdoti (lett: «i sommi sacerdoti») e i farisei, dicendo: «Signore, ci siamo ricordati che quell’impostore, mentre era vivo, disse: “Dopo tre giorni risorgerò”. Ordina dunque che la tomba venga vigilata fino al terzo giorno, perché non arrivino i suoi discepoli, lo rubino e poi dicano al popolo: “È risorto dai morti”. Così quest’ultima impostura sarebbe peggiore della prima!». Pilato disse loro: «Avete le guardie: andate e assicurate la sorveglianza come meglio credete». Essi andarono e, per rendere sicura la tomba, sigillarono la pietra e vi lasciarono le guardie»(Matteo 27,62-66).

Pilato, chiamato in causa, dalle autorità giudaiche che anticipano paradossalmente quanto dovrà avvenire e cercano di porvi rimedio alla loro maniera, decide di lasciare che siano i suoi interlocutori ad assicurare la custodia alla tomba.

Ricordiamoci di queste guardie, perché saranno la chiave del (duplice) tentativo di manipolazione, accanto a chi le ha usate.

Piero della Francesca nel suo straordinario capolavoro conservato a San Sepolcro, le ha raffigurate immerse totalmente in quel sonno che esprime la distanza umana da un fatto così straordinario e al tempo stesso l’incapacità di contenere l’evento della Pasqua, che non è possibile manipolare (o addomesticare per i propri fini). Come quanti hanno pensato di aver trovato la soluzione al problema in sé, la negazione tout court della Risurrezione, attraverso il mezzo più elementare della corruzione: il denaro. E tutto questo nonostante che, in aggiunta alla custodia umana, la tomba fosse stata bloccata strategicamente con dei sigilli, violati non da ipotetici rapitori ma dalla potenza della manifestazione divina.

Nel racconto di Matteo, la risurrezione sfugge semplicemente alle guardie che dovevano custodire la tomba: l’unica reazione è quella davanti all’angelo che ha il compito di rotolare la pietra che tiene chiuso il sepolcro: solo «per lo spavento che ebbero di lui, le guardie furono scosse e rimasero come morte» (Matteo 28,64). Paradossalmente, queste guardie testimoniano l’infondatezza della ragione per cui erano state collocate alla tomba di Gesù: se la pietra era ancora al suo posto, non poteva essere stato rapito nessun corpo. E tuttavia nessun corpo era ormai nella tomba: «So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. È risorto, infatti, come aveva detto; venite, guardate il luogo dove era stato deposto» (Matteo 28,5-6).

L’evangelista ha, però, in serbo un’altra sorpresa: dalla tomba si dipartono due movimenti divergenti. Le donne che vanno ad annunciare ai discepoli l’evento della risurrezione, per convocarli in Galilea, dove lo vedranno (mentre esse già lo incontrano sulla loro strada); e alcune (non tutte!), le guardie che riportano l’accaduto ai loro mandanti (Matteo 28,11).

Tutto sembrerebbe indicare il fallimento della mossa precedente delle autorità giudaiche, in quella terra di nessuno che il potere disegna sempre per quelli che lo abitano, e sembrerebbe renderli immuni dal senso di fallimento.

Il potere mette a disposizione anche il denaro e il denaro emerge ancora nel racconto. Quindi gli esponenti dell’intellighenzia di Gerusalemme decidono di mettere (ancora) mano alla borsa. Così, scrive ancora Matteo, i sommi sacerdoti «si riunirono con gli anziani e, dopo essersi consultati, diedero una buona somma di denaro ai soldati, dicendo: «Dite così: “I suoi discepoli sono venuti di notte e l’hanno rubato, mentre noi dormivamo”. E se mai la cosa venisse all’orecchio del governatore, noi lo persuaderemo e vi libereremo da ogni preoccupazione» (Matteo 28,12-14).

Il denaro che ha fornito la custodia armata e fallimentare alla tomba corrompe ancora una volta, e paga chi ha totalmente mancato al proprio compito iniziale: pertanto «quelli presero il denaro e fecero secondo le istruzioni ricevute (lett: «come era stato insegnato loro»). Così questo racconto [ho logos nell’originale!] si è divulgato fra i Giudei fino ad oggi» (Matteo 28,15).

E qui nasce la seconda manipolazione, quella della notizia, condotta attraverso una sorta di parodia dello stesso kerigma cristiano, utilizzando la stessa identica terminologia, ancora più evidente nel testo originale.

Il potere tenta di piegare la verità della risurrezione, mostrando così la propria intima debolezza, e in aggiunta sostiene di poter manipolare anche l’autorità di Roma. Ha addirittura elaborato anche il suo “comunicato stampa”: «Dite così: “I suoi discepoli sono venuti di notte e l’hanno rubato, mentre noi dormivamo”».

In esso non sostiene neanche che le guardie sono state sopraffatte, ma sono venute meno nel loro compito perché sopraffatte dal sonno. Questa è l’ultima perfidia: al corrotto in pratica viene addossata anche la colpa e la responsabilità del corruttore.

Matteo, infine, aggiunge per il suo lettore che il «racconto» del rapimento si è diffuso fra i Giudei fino al giorno in cui viene scritto il “suo” racconto, quel Vangelo che è ancora oggi nelle nostre mani. Possiamo ritenere che è esattamente questo racconto, insieme a quelli di Marco, Luca (e Giovanni), a dare l’esatta ricostruzione degli avvenimenti relativi alla risurrezione: qui è come se le donne, anziché limitarsi ai soli discepoli, fossero arrivate fino a noi per chiamarci nella Galilea del nostro tempo, in cui vediamo ancora oggi presente e vivo il Risorto.

Francesco alla Sinagoga di Roma, cinquant’anni dopo la “Dichiarazione sulle Relazioni con le religioni non cristiane”

 Il Mantello della Giustizia – Marzo 2016

visita-papa-francesco-sinagoga-roma-focus-on-israeldi Stefano Tarocchi • Lo scorso 17 gennaio, dopo la storica visita di Giovanni Paolo II (13 aprile 1986), papa Francesco ha compiuto una visita, la prima da vescovo di Roma, al Tempio Maggiore della capitale, principale sinagoga della città, a distanza di sei anni esatti da quella di Benedetto XVI (17 gennaio 2010).

Se la visita di Giovanni Paolo ha rivestito un ruolo ineguagliabile nei rapporti con i «fratelli maggiori», come ebbe a definirli papa Wojtyła, quella delle settimane scorse di Francesco avviene in coincidenza con il cinquantesimo anniversario della dichiarazione Nostra aetate del Concilio Vaticano II, già ricordata lo scorso dicembre in un documento della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo. Tale documento insiste sulla dimensione teologica del dialogo ebraico-cattolico e quindi evidenzia l’inscindibile legame che unisce cristiani ed ebrei.

D’altronde, come ha notato Francesco, la dichiarazione conciliare, «ha definito teologicamente per la prima volta, in maniera esplicita, le relazioni della Chiesa cattolica con l’ebraismo». Così «i cristiani, per comprendere sé stessi, non possono non fare riferimento alle radici ebraiche, e la Chiesa, pur professando la salvezza attraverso la fede in Cristo, riconosce l’irrevocabilità dell’Antica Alleanza e l’amore costante e fedele di Dio per Israele».

Il lucido testo promulgato cinquant’anni fa da Paolo VI, che si firmava «vescovo della chiesa cattolica», dopo aver parlato in generale delle varie religioni, da quelle orientali all’Islam, al paragrafo 4 recava scritto: «tutti i fedeli di Cristo, figli di Abramo secondo la fede, sono inclusi nella vocazione di questo patriarca e che la salvezza ecclesiale è misteriosamente prefigurata nell’esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù. Per questo non può dimenticare che ha ricevuto la rivelazione dell’Antico Testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l’Antica Alleanza, e che essa stessa si nutre dalla radice dell’ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvatico che sono i gentili. La Chiesa crede, infatti, che Cristo, nostra pace, ha riconciliato gli Ebrei e i gentili per mezzo della sua croce e dei due ha fatto una sola cosa in se stesso. Inoltre la Chiesa ha sempre davanti agli occhi le parole dell’apostolo Paolo riguardo agli uomini della sua stirpe: «ai quali appartiene l’adozione a figli e la gloria e i patti di alleanza e la legge e il culto e le promesse, ai quali appartengono i Padri e dai quali è nato Cristo secondo la carne» (Romani 9,4-5), figlio di Maria vergine».

Così Francesco si pone con i papi che lo hanno preceduto, nella scia di una tradizione ininterrotta, che ha dovuto superare più di un dramma nel corso della storia, composta di elementi capaci di scavare fossati profondi. Richiamo soltanto l’Orazione del venerdì santo, la famigerata «pro perfidisJudaeis» [ut Deus et Dominus noster auferat velamen de cordibus eorum], in realtà coniata nel VII secolo come risposta alla “dodicesima benedizione” ebraica dell’Amidah, la “Preghiera in piedi”, che in una sua formulazione costituiva una vera e propria maledizione espressamente rivolta contro i “nazareni”, i seguaci di Gesù. Anche se dal concilio Tridentino, fino alla riforma conciliare del Vaticano II – a parte i recenti tentativi di restaurazione –venne usata solo nella grande preghiera universale dopo la lettura della Passione, di fatto ha influenzato (e forse influenza ancora) generazioni di credenti, nella catechesi e nella predicazione.

Ma la visita di Francesco alla sinagoga di Roma arriva anche in un tempo particolare, fatto «delle grandi sfide che il mondo di oggi si trova ad affrontare», a cominciare da quell’ecologia integrale che il papa definisce come «ormai prioritaria», e, pertanto «come cristiani ed ebrei possiamo e dobbiamo offrire all’umanità intera il messaggio della Bibbia circa la cura del creato».

È, tuttavia, soprattutto dove «conflitti, guerre, violenze ed ingiustizie aprono ferite profonde nell’umanità e ci chiamano a rafforzare l’impegno per la pace e la giustizia. La violenza dell’uomo sull’uomo è in contraddizione con ogni religione degna di questo nome, e in particolare con le tre grandi religioni monoteistiche. La vita è sacra, quale dono di Dio. Il quinto comandamento del Decalogo dice: «Non uccidere» (Esodo 20,13). Dio è il Dio della vita, e vuole sempre promuoverla e difenderla; e noi, creati a sua immagine e somiglianza, siamo tenuti a fare lo stesso». E Francesco prosegue: «ogni essere umano, in quanto creatura di Dio, è nostro fratello, indipendentemente dalla sua origine o dalla sua appartenenza religiosa. Ogni persona va guardata con benevolenza, come fa Dio, che porge la sua mano misericordiosa a tutti, indipendentemente dalla loro fede e dalla loro provenienza, e che si prende cura di quanti hanno più bisogno di Lui: i poveri, i malati, gli emarginati, gli indifesi. Là dove la vita è in pericolo, siamo chiamati ancora di più a proteggerla. Né la violenza né la morte avranno mai l’ultima parola davanti a Dio, che è il Dio dell’amore e della vita».

Quindi Francesco conclude: «noi dobbiamo pregare con insistenza affinché Dio ci aiuti a praticare in Europa, in Terra Santa, in Medio Oriente, in Africa e in ogni altra parte del mondo la logica della pace, della riconciliazione, del perdono, della vita».

Cinquant’anni dopo aver ricuperato le comuni radici condivise, ebraismo e cristianesimo si propongono di trovare nuove, non semplici, vie di un cammino condiviso.