«Pilato compose anche l’iscrizione…era scritta in ebraico, in latino e in greco»

Il Mantello della Giustizia – Maggio 2017

di Stefano Tarocchi • È consuetudine delle celebrazioni della Settimana santa la lettura dei racconti della passione, nelle Liturgie della domenica delle Palme e del Venerdì Santo. È proprio da questi racconti evangelici della tradizione sinottica, ma soprattutto del quarto Vangelo che l’attenzione dei credenti viene condotta a riflettere su un particolare mantegnache l’iconografia della crocifissione ha sempre messo in rilievo, anche se in maniere assai differenti. Una delle più schematiche è raffigurata nel dipinto di Andrea Mantegna (1431-1506), risalente agli anni 1457-1450: se guardiamo la tavola (67×93), conservata al Museo del Louvre, sopra la croce di Cristo è apposta una tavoletta con quattro lettere puntate: I.N.R.I., le iniziali latine di una espressione che suona come Iesus Nazarenus rex Iudaeorum, ovvero «Gesù Nazareno re dei Giudei» (si veda M.L. RIGATO,I.N.R.I.: il titolo della Croce, EDB, Bologna 2010). Qui la tradizione seguita anche da Mantegna (e molti altri) semplifica – alludendo alla sola lingua della città, che aveva il governo sull’intera regione – quello che troviamo nel Vangelo secondo Giovanni: «Pilato compose anche l’iscrizione [titlos] e la fece porre sulla croce; vi era scritto: “Gesù il Nazareno, il re dei Giudei”. Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco» (Gv 19,19-20). Il quarto Vangelo presenta due caratteristiche di rilievo: la prima è il termine greco titlos, mutuato dal latino titulus. Secondo lo storico Svetonio (70-126), una scritta su una tavoletta, spalmata di gesso bianco con lettere tracciate in nero, era portata da uno schiavo davanti al condannato o gli era appesa al collo (Vita di Caligola, 32), e poi poteva essere fissata sopra la croce.

La seconda caratteristica è il fatto che il Vangelo attribuisce a Pilato l’iniziativa dell’iscrizione (e il suo contenuto), con il risultato che si apre un contenzioso con le autorità giudaiche, presto risolto dal prefetto: «I capi dei sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: «Non scrivere: “Il re dei Giudei”, ma: “Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei”». Rispose Pilato: «Quel che ho scritto, ho scritto» (Gv 19,21-22). Di fatto, Pilato si riprende il suo ruolo davanti a chi l’ha costretto a condurre a termine la condanna: l’iscrizione diventa paradossalmente un titolo che onora colui che lo porta sulla croce (così Rudolph Schnackenburg).

Già il Vangelo secondo Marco però anticipava Giovanni dicendo ai suoi lettori che crocifisso«la scritta [epigraphé] con il motivo della sua condanna diceva: “Il re dei Giudei”» (Mc 15,26), divenuta in Luca «“Costui è il re dei Giudei”» (Lc 23,38), o più letteralmente «Il re dei Giudei è questo». Anche Luca utilizza lo stesso termine greco di Marco, quando dice:«Sopra di lui c’era anche una scritta» (Lc 23,38). Il termine epigraphé è impiegato anche per la scritta posta sul denarioromano in argento: «“È lecito o no pagare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare, o no?”. Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse loro: “Perché volete mettermi alla prova? Portatemi un denaro: voglio vederlo”. Ed essi glielo portarono. Allora disse loro: “Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?”. Gli risposero: «Di Cesare». Gesù disse loro: “Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio”» (Mc 12,14-17; cf. 12,16; Mt 22,20 e Lc 20,24). Anche alcuni manoscritti, influenzati dal testo del Vangelo di Giovanni, aggiungono le altre lingue dell’iscrizione, come si può vedere nelle altre due immagini: rispettivamente, di Giovanni di Fiesole, detto il Beato Angelico (1395-1455) e di Cenni di Pepo, conosciuto come Cimabue (1240-1302).deposizione

Anche nel Vangelo secondo Matteo troviamo un riferimento allo stesso tema, ma con un diverso intendimento: «Al di sopra del suo capo posero il motivo scritto [aitìa] della sua condanna: “Costui è Gesù, il re dei Giudei”» (Mt 27,37). Il termine greco usato assume un valore giuridico, compatibilmente a quanto dice il Vangelo di Luca: «Pilato disse ai capi dei sacerdoti e alla folla: “Non trovo in quest’uomo alcun motivo di condanna [àition]”» (Lc 23,4; cf. 23,14.22). sembra si tratti della versione greca del termine latino crimen, che porta in sé la gravità di un delitto pubblico contro l’ordine della società e veniva perseguiti pubblicamente. Nel medesimo Vangelo, peraltro, è a quel punto che si apprende che Gesù viene crocifisso in mezzo a due «briganti», che altrove sono chiamati «malfattori» (Lc 23,32.33.39). Questo ci fa rilevare che in quel mattino ci sono starti altri due processi e che Gesù, per la collocazione ricevuta, è il più importante di tutti: non sembra che gli altri abbiano una condanna visibile dalla croce a cui sono confissi.

crocifisso diversoIn ultimo vorrei rammentare un’opera collocata nell’antica pieve di S. Vincenzo a Torri, ai piedi delle colline di Scandicci, nei pressi della via Volterrana, in cui significativamente la scritta collocata sul Cristo crocifisso testimonia – si tratta di un capolavoro anonimo del XIII secolo – il passaggio alla lingua volgare. Infatti possiamo leggere: IHS NAZARENUM REX IUDEORUM, anziché un maggiormente corretto IHS NAZARENUS REX IUDAEORUM. Particolarmente interessanti i primi tre caratteri [IHS], recanti un tratto superiore, che l’artista adatta al suo orizzonte come una versione intermedia tra il nome di Gesù trasportato dalla lingua originale greca [ΙΗΣ], evidentemente non più compresa, che lascia comunque trasparire la lettura giovannea («in ebraico, in latino e in greco»: Gv 19,20) verso la mutazione nel simbolo che a breve utilizzeranno S. Bernardino da Siena (1380-1444) e S. Ignazio di Loyola (1491-1556): appunto Iesus Hominum Salvator, il celeberrimo monogramma IHS.

Francesco inaugura la quaresima

Il Mantello della Giustizia – Marzo 2017

Archbasilica_of_St._John_Lateran_HDdi Stefano Tarocchi • Nella Basilica di S. Giovanni in Laterano, il giovedì dopo le Ceneri, Francesco ha incontrato i parroci della sua diocesi. Si è rivolto a loro ponendo la domanda dei discepoli a Gesù: «Signore, accresci in noi la fede!» (Lc 17,5), che ha commentato con tre elementi: «la memoria radicata nella fede della Chiesa», la «speranza, che ci sostiene nella fede» e il «discernimento del momento», che ha quindi svolto nella sua meditazione.

«Fare memoria delle grazie passate – dice papa Francesco – conferisce alla nostra fede la solidità dell’incarnazione; la colloca all’interno di una storia, la storia della fede dei nostri padri». E continua, aggiungendo che «la speranza è quella che apre la fede alle sorprese di Dio. Il nostro Dio è sempre più grande di tutto ciò che possiamo pensare e immaginare di Lui, di ciò che gli appartiene e del suo modo di agire nella storia. L’apertura della speranza conferisce alla nostra fede freschezza e orizzonte». D’altronde «è il donarsi totale del Signore sulla croce quello che ci attrae, perché rivela la possibilità di essere più autentica. È la spogliazione di colui che non si impadronisce delle promesse di Dio ma… passa la fiaccola dell’eredità ai suoi figli».

Venendo quindi al discernimento, tema quanto mai attuale nel tessuto ecclesiale sotto varie declinazioni, il papa ha richiamato Evangelii Gaudium – espressamente citata come “documento programmatico”. Si parla di un «cammino di formazione e di maturazione nella fede… che «non sarebbe corretto interpretare … esclusivamente o prioritariamente come formazione (meramente) dottrinale» (EG 161). La crescita nella fede avviene attraverso gli incontri con il Signore nel corso della vita. Questi incontri si custodiscono come un tesoro nella memoria e sono la nostra fede viva, in una storia di salvezza personale».

Francesco ha parlato espressamente di “incompiuta pienezza”: «incompiuta, perché dobbiamo continuare a camminare; pienezza, perché, come in tutte le cose umane e divine, in ogni parte si trova il tutto». E come tante volte ha usato un’immagine particolarmente efficace, «quella del giocatore di basket o pallacanestro, che inchioda il piede come “perno” a terra e compie movimenti per proteggere la palla, o per trovare uno spazio per passarla, o per prendere la rincorsa e andare a canestro. Per noi quel piede inchiodato al suolo, intorno al quale facciamo perno, è la croce di Cristo: Stat crux dum volvitur orbis”».

Il papa ha quindi volto l’attenzione a «quella dimensione della fede [che Francesco chiama] deuteronomica…: la fede si alimenta e si nutre della memoria, [quella] dell’Alleanza che il Signore ha fatto con noi. Egli è il Dio dei nostri padri e nonni. Non è Dio dell’ultimo momento, un Dio senza storia di famiglia, un Dio che per rispondere ad ogni nuovo paradigma dovrebbe scartare come vecchi e ridicoli i precedenti». Per questo, «progredire nella fede non è soltanto un proposito volontaristico di credere di più d’ora innanzi: è anche esercizio di ritornare con la memoria alle grazie fondamentali. Si può “progredire all’indietro”, andando a cercare nuovamente tesori ed esperienze che erano dimenticati e che molte volte contengono le chiavi per comprendere il presente. Questa è la cosa veramente “rivoluzionaria”: andare alle radici. Quanto più lucida è la memoria del passato, tanto più chiaro si apre il futuro, perché si può vedere la strada realmente nuova e distinguerla dalle strade già percorse che non hanno portato da nessuna parte. La fede cresce ricordando, collegando le cose con la storia reale vissuta dai nostri padri e da tutto il popolo di Dio, da tutta la Chiesa».

Poi Francesco ha proseguito ricordando ai parroci romani «l’Eucaristia [come] il Memoriale della nostra fede, ciò che ci situa sempre di nuovo, quotidianamente, nell’avvenimento fondamentale della nostra salvezza, nella Passione, Morte e Risurrezione del Signore, centro e perno della storia». E, citando le parole del gesuita cileno Alberto Hurtado, canonizzato nel 2005, ha aggiunto: «La Messa è la mia vita e la mia vita è una Messa prolungata».

Riguardo alla fede, ha poi così continuato, che «si sostiene e progredisce grazie alla speranza. La speranza è l’ancora ancorata nel Cielo, nel futuro trascendente, di cui il futuro temporale – considerato in forma lineare – è solo una espressione. La speranza è ciò che dinamizza lo sguardo all’indietro della fede, che conduce a trovare cose nuove nel passato – nei tesori della memoria – perché si incontra con lo stesso Dio che spera di vedere nel futuro. La speranza inoltre si estende fino ai limiti, in tutta la larghezza e in tutto lo spessore del presente quotidiano e immediato, e vede possibilità nuove nel prossimo e in ciò che si può fare qui, oggi. La speranza è saper vedere, nel volto dei poveri che incontro oggi, lo stesso Signore che verrà un giorno a giudicarci». Perciò «la fede progredisce esistenzialmente credendo in questo “impulso” trascendente che si muove – che è attivo e operante – verso il futuro, ma anche verso il passato e in tutta l’ampiezza del momento presente».

Successivamente Francesco si è dedicato ad approfondire il tema del discernimento, la cui caratteristica è «fare prima un passo indietro, come chi retrocede un po’ per vedere meglio il panorama. C’è sempre una tentazione nel primo impulso, che porta a voler risolvere qualcosa immediatamente. In questo senso credo che ci sia un primo discernimento, grande e fondante, cioè quello che non si lascia ingannare dalla forza del male, ma che sa vedere la vittoria della Croce di Cristo in ogni situazione umana».

Quindi il papa ha letto ai parroci un intero brano di Evangelii gaudium, al fine di «discernere quella insidiosa tentazione [chiamata] pessimismo sterile…, una delle tentazioni più serie che soffocano il fervore e l’audacia è il senso di sconfitta, che ci trasforma in pessimisti scontenti e disincantati dalla faccia scura. Nessuno può intraprendere una battaglia se in anticipo non confida pienamente nel trionfo. Chi comincia senza fiducia ha perso in anticipo metà della battaglia e sotterra i propri talenti. Anche se con la dolorosa consapevolezza delle proprie fragilità, bisogna andare avanti senza darsi per vinti, e ricordare quello che disse il Signore a san Paolo: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2 Cor 12,9). Il trionfo cristiano è sempre una croce, ma una croce che al tempo stesso è vessillo di vittoria, che si porta con una tenerezza combattiva contro gli assalti del male. Il cattivo spirito della sconfitta è fratello della tentazione di separare prima del tempo il grano dalla zizzania, prodotto di una sfiducia ansiosa ed egocentrica. […] In ogni caso, in quelle circostanze siamo chiamati ad essere persone-anfore per dare da bere agli altri. A volte l’anfora si trasforma in una pesante croce, ma è proprio sulla Croce dove, trafitto, il Signore si è consegnato a noi come fonte di acqua viva. Non lasciamoci rubare la speranza!» (EG 85-86).

«Significativamente – ha quindi proseguito il papa – che «può persino sembrare che dove c’è fede non dovrebbe esserci bisogno di discernimento: si crede e basta… [che, del resto] non si esaurisce in una formulazione astratta né la carità in un bene particolare, ma il proprio della fede e della carità è crescere e progredire aprendosi a una maggiore fiducia e a un bene comune più grande. Il proprio della fede è essere “operante”, attiva, e così per la carità». Anche se «la fede può fossilizzarsi, nel conservare l’amore ricevuto, trasformandolo in un oggetto da chiudere in un museo [e] volatilizzarsi, nella proiezione dell’amore desiderato, trasformandolo in un oggetto virtuale che esiste solo nell’isola delle utopie» è allora che «il discernimento dell’amore reale, concreto e possibile nel momento presente, in favore del prossimo più drammaticamente bisognoso, fa sì che la fede diventi attiva, creativa ed efficace».

Francesco è poi passato a parlare di Simon Pietro, affermando esplicitamente che «avere due nomi lo decentra. [L’apostolo] non può centrarsi in nessuno di essi», ma dovrà «decentrarsi costantemente per ruotare solo intorno a Cristo, l’unico centro… il fatto che il Signore dica espressamente che prega per Simone – ha proseguito il papa – è estremamente importante, perché la tentazione più insidiosa del demonio è che, insieme a una certa prova particolare, ci fa sentire che Gesù ci ha abbandonato, che in qualche modo ci ha lasciato soli e non ci ha aiutato come avrebbe dovuto. Il Signore stesso ha sperimentato e vinto questa tentazione … È in questo punto della fede che abbiamo bisogno di essere in modo speciale e con cura rafforzati e confermati. Nel fatto che il Signore prevenga ciò che succederà a Simon Pietro e gli assicuri di avere già pregato perché la sua fede non venga meno, troviamo la forza di cui abbiamo bisogno».

Francesco ha poi detto che «questa “eclisse” della fede davanti allo scandalo della passione è una delle cose per cui il Signore prega in modo particolare. Il Signore ci chiede di pregare sempre, con insistenza; ci associa alla sua preghiera, ci fa domandare di “non cadere in tentazione e di essere liberati dal male”, perché la nostra carne è debole». «Forse la più grande tentazione del demonio era questa: insinuare in Simon Pietro l’idea di non ritenersi degno di essere amico di Gesù perché lo aveva tradito. Ma il Signore è fedele. Sempre. E rinnova di volta in volta la sua fedeltà». E il papa ha continuato: «se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare sé stesso» (2 Tm 2,13), come dice Paolo a Timoteo. L’amicizia possiede questa grazia: che un amico che è più fedele può, con la sua fedeltà, rendere fedele l’altro che non lo è tanto. E se si tratta di Gesù, Lui più di chiunque altro ha il potere di rendere fedeli i suoi amici. È in questa fede – la fede in un Gesù amico fedele – che Simon Pietro viene confermato e inviato a confermarci tutti quanti. In questo preciso senso si può leggere la triplice missione di pascere le pecore e gli agnelli. Considerando tutto ciò che la cura pastorale comporta, quello di rafforzare gli altri nella fede in Gesù, che ci ama come amici, è un elemento essenziale».

Quindi Francesco ha proseguito, estendendo a tutti i pastori qualcosa del ministero petrino: «non serve dividere: non vale sentirci perfetti quando svolgiamo il ministero e, quando pecchiamo, giustificarci per il fatto che siamo come tutti gli altri. Bisogna unire le cose: se rafforziamo la fede degli altri, lo facciamo come peccatori. E quando pecchiamo, ci confessiamo per quel che siamo, sacerdoti, sottolineando che abbiamo una responsabilità verso le persone, non siamo come tutti». E ha concluso il papa: «quando il Signore lo esalta e lo umilia, Simon Pietro non guarda a sé stesso, ma sta attento a imparare la lezione di ciò che viene dal Padre è ciò che viene dal diavolo. Quando il Signore lo rimprovera perché si è fatto grande, si lascia correggere. Quando il Signore gli fa vedere in modo spiritoso che non deve fingere davanti agli esattori delle tasse, va a pescare il pesce con la moneta. Quando il Signore lo umilia e gli preannuncia che lo rinnegherà, è sincero nel dire ciò che sente, come lo sarà nel piangere amaramente e nel lasciarsi perdonare. Tanti momenti così diversi nella sua vita eppure un’unica lezione: quella del Signore che conferma la sua fede perché lui confermi quella del suo popolo. Chiediamo anche noi a Pietro di confermarci nella fede, perché noi possiamo confermare quella dei nostri fratelli».

«Guardatevi dai pagani» – «Fate discepoli i pagani»: evoluzione di una prospettiva nel Vangelo di Matteo

Il Mantello della Giustizia – Marzo 2017

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di Stefano Tarocchi  Il primo vangelo nell’ordine del canone neotestamentario ha una struttura particolare, con cinque grandi discorsi, che vengono paragonati ai cinque libri di Mosè, ossia il Pentateuco.

Papia, vescovo di Ierapoli, una città la cui rovine si trovano nell’attuale Turchia (70-130 d.C.), scrive che «Matteo ordinò i detti (loghia) in lingua ebraica. Ciascuno poi li interpretò come ne era capace». Secondo s. Ireneo di Leone (140-200) «Matteo, tra gli Ebrei nella loro propria, lingua pubblicò un Vangelo scritto, mentre Pietro e Paolo evangelizzavano Roma e fondavano la chiesa». E Origene (185-254) aggiunge: «come ho appreso dalla tradizione riguardo ai quattro Vangeli, che soli sono ammessi senza controversia nella chiesa di Dio che è sotto il cielo: per primo fu scritto secondo Matteo, che era stato pubblicano, poi apostolo di Gesù Cristo, pubblicato per i credenti provenienti dal giudaismo, composto in lingua greca».

Tornando ai discorsi di cui abbiamo detto, il primo di questi è quello pronunciato davanti alla folla ed ai discepoli e, aperto dalla proclamazione delle otto beatitudini (più una nona ulteriore): il celeberrimo discorso del Monte, o della Montagna. Al suo interno, mentre l’evangelista riferisce il punto di vista di Gesù sulle pratiche della pietà del suo popolo (“elemosina”, “preghiera” e “digiuno”) leggiamo: «pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole» (Mt 6,7). Gesù così conclude: «non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate» (Mt 6,8).

Alla lettera quest’insegnamento, coronato dalla preghiera del Padre Nostro, mette in guardia contro un vano inutile blaterare sillabe inutili, o un torrenziale elaborato sfoggio di parole, con cui i pagani credono di poter essere ascoltati solo per il fatto di aprire bocca. Anche gli antichi consideravano inutile una preghiera che arriva fino a mettere alla prova la pazienza della divinità. È il concetto dello “stancare gli dèi” con interminabili richieste.

È proprio il riferimento ai «pagani» a cogliere la nostra attenzione. In questo vangelo infatti essi vengono esclusi dalla missione dei discepoli del Signore avanti la sua Pasqua: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 10,5-6). Mentre dopo la risurrezione, Gesù convoca sul monte (ancora una volta!) e a loro comanda: Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli [ossia «i pagani»], battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,19-20).

Nello stesso discorso della montagna prima Gesù aveva detto, parlando di un atteggiamento nuovo che deriva direttamente dall’insegnamento dell’amore per i nemici: «E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?» (Mt 5,47). Al termine dello steso discorso, come complemento dell’atteggiamento da tenere verso la provvidenza, e quindi dall’evitare ogni preoccupazione eccessiva, Gesù dice: «Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,32-33).

Peraltro, seguendo il filo dello stesso vangelo, nel secondo discorso, leggiamo «Sarete condotti davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani» (Mt 10,18). Si tratta delle istruzioni lasciate ai dodici apostoli nella loro missione.

Infine, nell’ultimo discorso, proprio mentre Gesù sale a Gerusalemme, a proposito di quanto lo attende nella città santa, dirà del Figlio dell’Uomo che «lo consegneranno ai pagani perché venga deriso e flagellato e crocifisso, e il terzo giorno risorgerà» (Mt 20,19). Un legame sottile unisce lo stesso Gesù e coloro che invia ad annunciare il Vangelo, prima al popolo d’Israele e poi ad ogni creatura umana.

Infatti, se nella visione iniziale del vangelo secondo Matteo, i pagani sono in origine la dimensione da cui i discepoli del Vangelo devono guardarsi e prendere le distanze, quando la comunità assume un nuovo orizzonte, come ad esempio nell’invio missionario post-pasquale (ma anche nella finale del libro degli Atti: «Sia dunque noto a voi che questa salvezza di Dio fu inviata alle nazioni [ossia i «pagani»], ed esse ascolteranno!»: At 28,28), i popoli stranieri, i «pagani» si vedono inopinatamente aperta la porta per essere accolti, mediante il battesimo, nella comunità dei discepoli di Gesù, la Chiesa.

È la stessa visione dell’apostolo Paolo, come questi dirà nella lettera ai Galati: «a me era stato affidato il Vangelo per i non circoncisi, come a Pietro quello per i circoncisi (Gal 2,7).

«Ecco l’Agnello di Dio»

trasferimento (2)di Stefano Tarocchi • Il Vangelo secondo Giovanni riserva al Battista un ruolo molto particolare: dopo averne precisato nel prologo il ruolo totalmente differente rispetto al Cristo – egli è infatti solo colui che gli rende testimonianza, e non la luce (Gv 1,8.15) – si fa conoscere al lettore che egli non è il Cristo, il Messia ma solo la «voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore». Quando Gesù arriva nel luogo in cui Giovanni sta battezzando, a Betania al di là del Giordano, è questa la sua parola «vedendo Gesù venire verso di lui»: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!». Giovanni aggiunge di essere «venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele» (Gv 1,29).
Ora è questa indicazione che voglio approfondire: «ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo».

Il quarto vangelo da un significato nuovo alla prima espressione («l’agnello di Dio»), che originariamente nell’ebraismo ha a che fare con il racconto del sacrificio di Isacco: «Dio stesso si provvederà l’agnello per l’olocausto» (Gen 22,8). Isacco nel giudaismo, dopo l’agnello della pasqua e il “servo del Signore” descritto da Isaia (Is 53,7.10), è il prototipo del sacrificio nel cui nome vengono cancellati i peccati del popolo. Per Gesù viene creata però l’associazione tra «agnello di Dio» e «Figlio di Dio»: «io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio» (Gv 1,34). Del resto appena Gesù è morto e «uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19,34), l’evangelista aggiunge (e in questo caso è lui il testimone): «Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso. E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto». D’altronde, scrive ancora il Vangelo «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,16-17).

Potremmo però chiederci perché le parole del Battista parlano di «agnello di Dio che toglie il peccato», al singolare – mentre la liturgia “traduce” regolarmente «che toglie i peccati», al plurale. Questo è, come già commentava Rudolf Schnackenburg, il “peso dei peccati dell’umanità”. È ciò che viene chiamato in chiave ancora più assoluta, la distruzione di ogni ordine: «il peccato è l’iniquità» (1 Gv 3,4).

È infatti, su questa tonalità universale che si sposta il pensiero del quarto evangelista, quando scrive nella prima delle tre lettere che il canone gli attribuisce: «Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (1 Gv 2,1-2). E ancora, e soprattutto: «non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1 Gv 4,10).

La stessa prima lettera di Giovanni sposta ulteriormente questo orizzonte, quando scrive anche: «Se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, il Figlio suo, ci purifica da ogni peccato. Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non avere peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi» (1Gv 1,7-10).

Addirittura, il medesimo scritto dell’apostolo Giovanni, rovescia in chiave battesimale la contemplazione del Cristo, “addormentato” sulla croce, rivelando la sua azione salvifica universale: «egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l’acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue» (1 Gv 5,6).