La traduzione CEI del 1971: una traduzione fiorentina?

florit_672-458_resizedi Stefano Tarocchi • «Ogni traduzione, anche la più accurata, anche quella che più si preoccupa di rendere il senso genuino dei testi originali, è pur sempre un’“interpretazione”, una serie di scelte esegetiche, legate per forza alla sensibilità, alla formazione culturale, alle preferenze» di quanti vi si accingono. Così scriveva l’arcivescovo Florit in una premessa rimasta inedita della traduzione della CEI del 1971.

Il concilio Vaticano II aveva detto: «È necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla sacra Scrittura. Per questo motivo, la Chiesa fin dagli inizi fece sua l’antichissima traduzione greca del Vecchio Testamento detta dei Settanta, e ha sempre in onore le altre versioni orientali e le versioni latine, particolarmente quella che è detta Volgata. Poiché, però, la parola di Dio deve essere a disposizione di tutti in ogni tempo, la Chiesa cura con materna sollecitudine che si facciano traduzioni appropriate e corrette nelle varie lingue, di preferenza a partire dai testi originali dei sacri libri» (Dei Verbum22).

Negl’intendimenti di Florit nella fase immediatamente postconciliare, la nuova traduzione della Bibbia in lingua italiana, o piuttosto la revisione di quella curata da Galbiati, Penna e Rossano, doveva essere riversata prevalentemente nella liturgia e doveva avere le seguenti caratteristiche: 1. che fosse, quanto possibile, esatta nel rendere il testo originale; 2. che avesse una sua modernità di linguaggio ed una eufonia della frase per favorire la proclamazione nelle assemblee; 3. che fosse curata nel ritmo, secondo le esigenze della recitazione e del canto».

Nella sostanza, con «un vocabolario, quanto più possibile, moderno e vivo, un periodare abbastanza agile e spezzato» ottenuto con «la purificazione del testo da eventuali sviste e da asprezze lessicali e sintattiche».

Florit manifesta la preoccupazione «attraverso, la revisione letteraria, di giungere ad un testo corretto e apprezzabile dal punto di vista linguistico» e che deve «lasciare intatte le scelte di carattere interpretativo fatte dai biblisti», che avendo un «compito prevalentemente di natura esegetica e teologica» hanno «potuto occuparsi solo di riflesso dell’aspetto linguistico».

Il compito dei «letterati fiorentini», voluti da Florit e dai suo collaboratori (si tratta di Chiari, Lisi, Betocchi, Bargellini, Devoto, Pieraccioni, Pampaloni, Paolo Sacchi, L.M. Personé, e Carlo Bo), è stato quello di eliminare le forme arcaiche, i «semitismi di difficile comprensione, i periodi eccessivamente lunghi», tipici dell’epistolario paolino. Nella lettera loro indirizzata Florit scriverà espressamente che la «terza fase del lavoro, per quanto si riferisce al Nuovo Testamento, si vorrebbe realizzare a Firenze, tenuto conto dell’opportunità di “risciacquare i panni in Arno”».

L’arcivescovo di Firenze era saggiamente consapevole che «l’opera non [avrebbe potuto] soddisfare tutte le esigenze». Perciò Florit mostra di gradire, anzi solleciterà «rilievi, annotazioni, critiche… tali da permettere «nelle future edizioni gli opportuni miglioramenti sia dal punto di vista interpretativo che linguistico».

Firenze inevitabilmente assume un ruolo decisivo, ma nel quadro di una oralità che renda il testo sempre più coinvolgente, dopo la lunga stagione di estraneità dei credenti davanti alla Vulgata. Questo era possibile nell’orizzonte letterario del tempo, sia per l’importanza di quanti erano stati chiamati a condividere il progetto, sia per il quadro culturale che scaturiva dalla città. La lingua italiana di quaranta anni fa era Firenze e la Toscana, prima che il linguaggio televisivo e i suoi influssi romani e lombardi creassero un’altra stagione, e un altro tipo di lingua, una lingua comune forse non migliore ma certo diversa.

Secondo le intenzioni di Florit non si traduce la Bibbia solo far comprendere il testo a chi non conosce il greco e l’ebraico – esistevano già eccellenti traduzioni in lingua italiana –, ma perché la proclamazione nell’assemblea ridia nuovo vigore alla parola, al pari dell’interprete di uno spartito musicale che trasmette a quanti ascoltano la forza della parola. L’interprete può leggere lo spartito musicale, come si distende nella sua mente, dopo che si trova sul pentagramma davanti ai suoi occhi: finché rimane in questo stadio la Parola rivelata non comunica a nessuno la sua verità, che è fatta di suono vivo ed efficace anche in una traduzione. L’interprete, come il traduttore, ha il compito di far risuonare la parola nel cuore e nella mente di quanti ascoltano.

Siamo in sostanza all’orizzonte determinato dalla lettura pubblica della Parola, in quella duplice mensa che questa condivide con il pane della vita, l’Eucaristia, in sintonia con il libro di Neemia: «Allora tutto il popolo si radunò come un solo uomo sulla piazza davanti alla porta delle Acque e disse allo scriba Esdra di portare il libro della legge di Mosè, che il Signore aveva dato a Israele. Il primo giorno del settimo mese, il sacerdote Esdra portò la legge davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere. Lesse il libro sulla piazza davanti alla porta delle Acque, dallo spuntare della luce fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne e di quelli che erano capaci d’intendere; tutto il popolo tendeva l’orecchio al libro della legge» (Neemia 8,1-3).

Come dice il Vangelo di Luca: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Luca 4,21)»

Francesco alla chiesa italiana: interrogazioni e proposte.

imagedi Stefano Tarocchi • È indubbio che il discorso pronunciato da papa Francesco il 10 novembre scorso al mattino nella cattedrale fiorentina sia stato un discorso fortemente significativo, al di là del convegno ecclesiale che lo ha originato: lo prova la fretta con cui lo si è archiviato, al di là della prima accoglienza entusiastica, e anche dei primi distinguo con cui i soliti noti lo hanno accolto, oppure lo hanno ignorato (o fatto ignorare…). Peccato, perché esso è una delle chiavi per entrare nel rapporto tra Francesco e quella chiesa italiana, della nazione da cui trae origine la sua famiglia, ma che può guardare alla realtà italiana con uno sguardo realmente universale e non con quello che tradizionalmente si è attribuito al papa, in forma più “poetica” che teologica, più “scolastica” che concreta.

Francesco ha cominciato lanciando uno sguardo al «volto della misericordia” del Cristo rappresentato nell’affresco della cupola di S. Maria del Fiore, cattedrale ma anche chiesa che racchiude l’essenza stessa della città e da questa guarda all’Italia e al mondo. Secondo il papa l’umanesimo ha pienamente a che fare con i «sentimenti di Cristo Gesù», secondo l’inno paolino della lettera ai Filippesi. Francesco ne sceglie tre: l’umiltà, il disinteresse e la beatitudine.

«L’ossessione di preservare la propria gloria, la propria “dignità”, la propria influenza non deve far parte dei nostri sentimenti. Dobbiamo perseguire la gloria di Dio, e questa non coincide con la nostra: Gesù non considera un «privilegio» l’essere come Dio (Fil 2,6)». E ancora cita l’apostolo Paolo “Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a sé stesso» (Fil2,3)».

Quindi Francesco aggiunge che «un altro sentimento di Gesù che dà forma all’umanesimo cristiano è il disinteresse. “Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri” (Fil 2,4)”. … Più che il disinteresse, dobbiamo cercare la felicità di chi ci sta accanto. L’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è narcisistica, autoreferenziale. Quando il nostro cuore è ricco ed è tanto soddisfatto di sé stesso, allora non ha più posto per Dio». È il rinchiudersi «nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli (Evangelii gaudium, 49)».

Un terzo sentimento analizzato dal papa è quello della beatitudine: «il cristiano è un beato, ha in sé la gioia del Vangelo. Nelle beatitudini il Signore ci indica il cammino» per «arrivare alla felicità più autenticamente umana e divina» che troviamo anche «nella più umile della nostra gente, … è quella di chi conosce la ricchezza della solidarietà, del condividere anche il poco che si possiede; la ricchezza del sacrificio quotidiano di un lavoro, a volte duro e mal pagato, ma svolto per amore verso le persone care; e anche quella delle proprie miserie, che tuttavia, vissute con fiducia nella provvidenza e nella misericordia di Dio Padre».

«Questi tre tratti ci dicono che non dobbiamo essere ossessionati dal “potere”, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa. Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il senso. Se li assume, invece, sa essere all’altezza della sua missione. I sentimenti di Gesù ci dicono che una Chiesa che pensa a sé stessa e ai propri interessi sarebbe triste». Ed ha aggiunto: «preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti» (EG 49).

Da qui nascono le possibili tentazioni per chi accoglie il Vangelo nel nostro tempo: Francesco ne ha presentate due. I discepoli di Gesù dovranno anzitutto guardarsi dalla tentazione del pelagianesimo, che «spinge la Chiesa a non essere umile, disinteressata e beata… con l’apparenza di un bene». Esso «ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte» … e «ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività. La norma dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore… non nella leggerezza del soffio dello Spirito». E Francesco aggiunge che «davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative. La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, animare… La riforma della Chiesa – e la Chiesa è semper reformanda – è aliena dal pelagianesimo» e «non si esaurisce nell’ennesimo piano per cambiare le strutture. Significa invece innestarsi e radicarsi in Cristo lasciandosi condurre dallo Spirito».

La seconda della tentazione è quella dello gnosticismo, che «porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello. Il fascino dello gnosticismo è quello di «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti» (EG 94)». Il papa spiega che «la differenza fra la trascendenza cristiana e qualunque forma di spiritualismo gnostico sta nel mistero dell’incarnazione. Non mettere in pratica, non condurre la Parola alla realtà, significa costruire sulla sabbia, rimanere nella pura idea e degenerare in intimismi che non danno frutto, che rendono sterile il suo dinamismo». Ed ha aggiunto che «la Chiesa italiana ha grandi santi il cui esempio possono aiutarla a vivere la fede con umiltà, disinteresse e letizia, da Francesco d’Assisi a Filippo Neri. Ma pensiamo anche alla semplicità di personaggi inventati come don Camillo che fa coppia con Peppone», tratto che ha fatto storcere la bocca a quanti non conoscono la fine penna di Guareschi – su cui ha scritto il direttore – ma solo la sua trasposizione cinematografica.

In conclusione riprendo quello che lo stesso Francesco ha detto, riassumendolo in quattro punti: 1) «ai vescovi chiedo di essere pastori: sia questa la vostra gioia. Sarà la gente, il vostro gregge, a sostenervi»; 2) «a tutta la Chiesa italiana raccomando ciò che ho indicato in quella Esortazione: l’inclusione sociale dei poveri, che hanno un posto privilegiato nel popolo di Dio, e la capacità di incontro e di dialogo per favorire l’amicizia sociale nel vostro Paese, cercando il bene comune. L’opzione per i poveri è «forma speciale di primato nell’esercizio della carità cristiana, testimoniata da tutta la Tradizione della Chiesa» (Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, 42)». Questi due punti si aprono in altri due: 3) «Vi raccomando anche, in maniera speciale, la capacità di dialogo e di incontro. Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti. Discutere insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti»; 4) «Cercate di avviare, in modo sinodale, un approfondimento della Evangelii gaudium, per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni».

Sarà bene che la chiesa italiana si metta in moto per accogliere la sfida allo stesso tempo pressante (e misericordiosa) che il papa le ha lasciato: non è un caso che proprio l’invito ad approfondire l’Evangelii gaudium sia una garbata ma ferma presa d’atto che troppi ambienti ecclesiali se ne siano tenuti a doverosa distanza anziché raccoglierne le sfide.

Le due grandi domande di Gesù ai discepoli. Le risposte di Francesco

Papa-a-Firenze-allo-stadio-la-Chiesa-come-Gesu-vive-in-mezzo-alla-gente-e-per-la-gente_articleimagedi Stefano Tarocchi • L’omelia di papa Francesco nella sua celebrazione allo stadio fiorentino Artemio Franchi – luogo per sé stesso, ha detto, che ricorda alla Chiesa, che «come Gesù, vive in mezzo alla gente e per la gente», – ha seguito lo stringente filo narrativo di Matteo, il discepolo divenuto scrittore, commentando il brano del suo Vangelo che la liturgia assegna alla memoria di s. Leone Magno.

Ha così esordito Francesco: «Gesù pone ai suoi discepoli due domande. La prima domanda, “la gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?” (Mt 16,13), è una domanda che dimostra quanto il cuore e lo sguardo di Gesù sono aperti a tutti». Per se stesso e il suo posto nella chiesa ha riservato una prima testimonianza: «Alla domanda di Gesù risponde Simone: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (v. 16). Questa risposta racchiude tutta la missione di Pietro e riassume ciò che diventerà per la Chiesa il ministero petrino, cioè custodire e proclamare la verità della fede; difendere e promuovere la comunione tra tutte le Chiese; conservare la disciplina della Chiesa». Ma Francesco aveva già anticipato: «Mantenere un sano contatto con la realtà, con ciò che la gente vive, con le sue lacrime e le sue gioie, è l’unico modo per poterla aiutare, di poterla formare e comunicare: è l’unico modo per parlare ai cuori delle persone toccando la loro esperienza quotidiana, … l’unico modo per aprire il loro cuore all’ascolto di Dio. In realtà, quando Dio ha voluto parlare con noi si è incarnato».

Anche perché i «discepoli di Gesù non devono mai dimenticare da dove sono stati scelti, cioè tra la gente, e non devono mai cadere nella tentazione di assumere atteggiamenti distaccati, come se ciò che la gente pensa e vive non li riguardasse e non fosse per loro importante». Si tratta della stessa ansia apostolica di s. Leone, «che tutti potessero conoscere Gesù, e conoscerlo per quello che è veramente, non una sua immagine distorta dalle filosofie o dalle ideologie del tempo».

Su questo terreno scivoloso la comunità dei discepoli di Gesù dovrà guardarsi dalla tentazione dello «gnosticismo», lumeggiata nel discorso mattutino in s. Maria del Fiore. Questa tentazione – ha spiegato Francesco – porta [la Chiesa] a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello. Il fascino dello gnosticismo è quello di «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti» (Evangelii gaudium 94).

Del resto ha ripetuto ancora una volta Francesco: «preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti» (Evangelii gaudium 49).

C’è tuttavia una nuova domanda che Gesù pone ai discepoli, la seconda: «Ma voi, chi dite che io sia? (Mt 16,15)». Essa «risuona ancora oggi alla coscienza di noi suoi discepoli, ed è decisiva per la nostra identità e la nostra missione … La Chiesa, come Gesù, vive in mezzo alla gente e per la gente. Per questo la Chiesa, in tutta la sua storia, ha sempre portato in sé la stessa domanda: chi è Gesù per gli uomini e le donne di oggi?».

Francesco aveva già richiamato al mattino anche la tentazione del «pelagianesimo», che «ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte. Spesso ci porta pure ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività». Il papa aveva aggiunto che «davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative». Questo perché «la dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, animare». Con una felicissima espressione il papa aveva aggiunto che la medesima dottrina «ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: si chiama Gesù Cristo», per poi affidare un compito: «innestarsi e radicarsi in Cristo lasciandosi condurre dallo Spirito. Allora tutto sarà possibile con genio e creatività. La Chiesa italiana si lasci portare dal suo soffio potente e per questo, a volte, inquietante».

Per ritornare all’omelia, in cui ha Francesco ha riscaldato il cuore della chiesa (e della città) di Firenze, che lo hanno accompagnato nel suo intenso percorso, ha proseguito il papa che «la nostra gioia è di condividere questa fede e di rispondere insieme al Signore Gesù: “Tu per noi sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. La nostra gioia è anche di andare controcorrente e di superare l’opinione corrente, che, oggi come allora, non riesce a vedere in Gesù più che un profeta o un maestro. La nostra gioia è riconoscere in Lui la presenza di Dio, l’inviato del Padre, il Figlio venuto a farsi strumento di salvezza per l’umanità». Ha poi aggiunto che «alla radice del mistero della salvezza sta infatti la volontà di un Dio misericordioso, che non si vuole arrendere di fronte alla incomprensione, alla colpa e alla miseria dell’uomo, ma si dona a lui fino a farsi Egli stesso uomo per incontrare ogni persona nella sua condizione concreta».

Ha quindi concluso: «lo stesso volto che noi siamo chiamati a riconoscere nelle forme in cui il Signore ci ha assicurato la sua presenza in mezzo a noi: nella sua Parola, che illumina le oscurità della nostra mente e del nostro cuore; nei suoi Sacramenti, che ci rigenerano a vita nuova da ogni nostra morte; nella comunione fraterna, che lo Spirito Santo genera tra i suoi discepoli; nell’amore senza confini, che si fa servizio generoso e premuroso verso tutti; nel povero, che ci ricorda come Gesù abbia voluto che la sua suprema rivelazione di sé e del Padre avesse l’immagine dell’umiliato crocifisso». Tutto questo è vero perché «Dio e l’uomo non sono i due estremi di una opposizione: essi si cercano da sempre, perché Dio riconosce nell’uomo la propria immagine e l’uomo si riconosce solo guardando Dio».

E Francesco ha quindi lasciato questo piccolo e tuttavia grande segnale di speranza, per «creare un’umanità nuova, rinnovata»: il suo segnale preciso si trova dove nessuno è lasciato ai margini o scartato; dove chi serve è il più grande; dove i piccoli e i poveri sono accolti e aiutati». «Non per nulla l’umanesimo, di cui Firenze è stata testimone nei suoi momenti più creativi, ha avuto sempre il volto della carità».

Gesù e la sua passione

augias_masu-k09-U10601442744937THF-428x240@LaStampa.itdi Stefano Tarocchi •Corrado Augias in Le ultime diciotto ore di Gesù (Einaudi, Torino 2015) crea un lungo racconto romanzato sulla passione di Cristo, ma non riesce ad uscire dal suo ruolo di giornalista: è evidente che gli piace indugiare nello spiegare quello che narra, facendo a meno delle fonti (anche se vedremo che delle fonti esistono eccome) ed usando spesso il suo istinto come fonte. Questo, in sintesi, il percorso della sua “analisi”.

Nella narrazione, troviamo colte citazioni da Orazio a Cicerone al Qoelet (o Koheleth): la chiave per capire con gli occhi dello scrittore che apparentemente descrive le «ultime diciotto ore» della vita di Gesù ma rimane affascinato da tutto il complesso universo in cui il racconto si svolge. Salvo poi creare dialoghi dal vago genere filosofico, come quello tra la moglie di Pilato e Lucilio, o introdurre sul genere flash-back testimonianze dei protagonisti o sue personali digressioni, dal sapore fortemente didascalico. Si aggiunge a tutto questo qualche rapida incursione in scene pruriginose, in pendant con la pornografia della violenza e del sangue cara a certe letture della passione, fondamentalmente estranee per chi conosce e legge i Vangeli canonici. Descrizioni romanzate di costume di Augias, che strizza l’occhio al lettore, dei corrotti e corruttibili funzionari romani e delle loro debolezze anche fisiche?

Evidentemente il film di Gibson sulla passione, col suo irrefrenabile bisogno di mostrare sangue e violenza, gli appare una specie di faro di sapienza a confronto della sobrietà dei Vangeli circa gli eventi drammatici che precedono la morte di Gesù. Gli stessi Vangeli canonici, secondo Augias, sono: 1) testi al servizio di un’ideologia e non di una biografia, sia pure apologetica, anche se, aggiunge, molti considerano attendibili quei testi, ricavando un senso di rassicurazione e di speranza – concede con indulgenza – sono solo «testi edificanti»; 2) testi che sono frutto della fede più che della storia; 3) nessuno dei testi è stato scritto da testimoni diretti dei fatti. Gli scritti di Matteo, Marco, Luca e Giovanni sono sempre di parte: si intende, dalla parte dei Romani, secondo Augias. Gli è evidentemente più gradito e più consono il Vangelo gnostico di Tommaso.

Augias anche si comporta quasi da navigato esegeta, quando spiega il termine greco ptochòs, «povero», lascia tuttavia (un lapsus?) che il suo lettore creda che la Pasqua dell’anno 33 si svolga il giorno stesso della morte di Gesù – che invece, come scrive Giovanni, è il giorno dopo la sua morte –, e il sommo sacerdote Caifa, ritratto con la prudenza melliflua di un funzionario di polizia d’altri tempi, possa usare nel suo resoconto da romanzo d’appendice sul processo a Gesù, termini come plenum per riferirsi all’assemblea del Sinedrio (765).

Quando, quasi per caso, cita per la prima volta Gesù nella nostra lingua (328) ciò avviene attraverso gli occhi di Pilato. Prima aveva usato la traslitterazione della lingua ebraica: Joshua ben Joseph ha-Nozri (63: la numerazione è quella dell’edizione ebook), poi solamente Joshua (375), che vive con il padre Joseph, naturalmente «falegname», anche se Augias parla di un «carpentiere», con quattro figli e due figlie, che vive con Myriam, naturalmente Maria e quello che lo scrittore chiama il segreto di lei: ogni rimando al racconto del vangelo di Matteo (o tantomeno di Luca) non viene neanche preso in considerazione, ma si sa questi sono i Vangeli dei semplici, che gli intellettuali guardano con sufficienza…

Pilato evidentemente dev’essere molto caro ad Augias, tanto che il lettore, talora, non distingue il pensiero dell’uno dalla descrizione dell’altro. È così che Pilato, secondo Augias, emette una sentenza di morte in base a valutazioni complesse: secondo Filone (Legatio ad Gaium) emerge di lui «la corruttibilità e la violenza, l’insopportabile crudeltà» (quest’ultima, secondo lo scrittore, lo avvicina ad Erode, ed in particolare, alla strage degl’innocenti), mentre i Vangeli, scrive ancora, dipingono Pilato «nobilmente lacerato» (?!). Caifa è perfidamente rappresentato nell’«impedire che i Romani mandassero sull’atroce patibolo della croce un ebreo… così amato dal popolo… e tentare in extremis di salvarlo» (altra espressione latina: 765!).

Quindi lo scrittore inframezza con divagazioni quello che poteva essere un saggio di indagine storica (cf. ad esempio, Willibald Bösen, L’ultimo giorno di Gesù di Nazaret, Elledici, Leumann (TO) 2007) e diventa invece un pamphlet. Così Augias ha di fatto creato la sua fiction, termine che, sottolinea egli stesso, deriva dal sostantivo latino fictio e dal verbo latino fingere. Per questo l’idea difiction, cara all’autore, gli offre numerosi significati utili alla descrizione di quanto va scrivendo: “figurarsi”, “immaginare”, “supporre”, “ipotizzare” (97). E Augias fa proprio così, mescolando sapientemente le fonti, a seconda delle sue preferenze e dei suoi gusti, che richiama al termine del libro: da Bulgakov a Giuseppe Flavio, da Hengel a Jeremias, da Lohse a Romano Penna, da Renan a Saramago, da Artemidoro a Lucrezio, da Vito Mancuso a Remo Cacitti a Mauro Pesce e Marco Vannini.

Va riconosciuto che, come è suo solito, è capace di farsi leggere, cosa non da poco. Ma il risultato, a mio avviso, rimane sempre inadeguato di fronte alla grandezza del tema, e, sebbene indubbiamente affascinato dal Cristo, l’autore rimane avviluppato in una indomabile ambiguità.