Sulla recente visita del primo ministro Israeliano Netanyahu

home_facilitiesdi Stefano Tarocchi • La recente visita fiorentina del primo ministro israeliano Benjamin (Bibi) Netanyahu, che fa seguito alla visita nelle ultime settimane del presidente del consiglio Matteo Renzi, pone all’attenzione dell’opinione pubblica un grave problema che le crisi degli ultimi dodici mesi, la complessa situazione internazionale con la questione dell’IS (o ISIS) e la situazione socio-politica del Mediterraneo, con le crisi siriane, egiziane e libiche, hanno nascosto. Si aggiunga a tutto questo l’attualissima e conseguente situazione dei rifugiati nei confini dell’Unione Europea, attraverso le fragili frontiere dell’Italia, della Grecia e dell’Ungheria (con la costruzione di decine di chilometri di barriere di filo spinato), che provoca reazioni scomposte (e talora surreali, e francamente stucchevoli) per esempio nel Regno Unito e in alcuni paesi dell’est europeo. La stessa Germania e la Francia (dopo lo spettacolo offerto alla frontiera italo-francese di Ventimiglia) stanno solo ora prendendo coscienza che il problema non può essere confinato ad un singolo paese, con le norme determinate dal trattato di Dublino.

Tutto questo complesso panorama, che abbiamo descritto sommariamente, hanno oscurato il problema di una corretta informazione sulla Terra Santa, con le implicazioni che comporta, sul tessuto europeo e particolarmente italiano, capace di convogliare centinaia di migliaia di persone in quel cammino unico nell’orizzonte cristiano: il pellegrinaggio nelle terre bibliche e in particolare in Terra Santa.

La situazione di guerra che si è venuta a creare nell’estate del 2014, con i lanci di razzi dalla Striscia di Gaza su Israele e la reazione militare conseguente, hanno provocato in particolare nell’opinione pubblica italiana una reazione di paura nell’affrontare tale percorso. La dimostrazione è la caduta verticale del numero dei pellegrini (e dei viaggiatori) italiani, che va dall’estate 2014, quando la situazione ha raggiunto il suo acme, fino al momento attuale. Quello che è sempre stato percepito come un luogo da evitare per paura di attentati, di violenze e di situazioni riconducibili alla guerra, è diventato per lungo tempo un luogo tabù per definizione.

Si dimentica che esistono altri teatri molto più problematici, e certamente non in grado di garantire il livello di sicurezza, garantito, piaccia o meno, anche dalla tecnologia avanzata, come lo stesso Netanyahu ha sottolineato nel suo intervento a Palazzo Vecchio. Per avere un approccio corretto a questi problemi di sicurezza basta consultare il sito del nostro Ministero degli Affari Esteri.

Ora un’informazione corretta può essere raggiunta da ciò che è reperibile sulla rete forse in misura molto più determinante di ciò che il lettore trova sui giornali di opinione o di informazione, ma viene soprattutto cercata (e non sempre ottenuta!) sul mezzo che per definizione deve fornire suoni e immagini: la televisione. Se il mezzo è l’informazione e il mediatore dell’informazione visiva, l’inviato o il corrispondente, che non ha necessariamente (purtroppo!) una conoscenza adeguata (linguistica e biblico-culturale) del mondo che va a descrivere, di fatto può limitarsi a ripetere quello che ha visto dire da altri colleghi più preparati di lui. È così decisivo quale patrimonio di immagini (se in diretta o di archivio) accompagna la notizia. Ed inevitabile è l’impatto sullo spettatore e di come questi, a sua volta, rilancia la notizia con il passaparola: il mezzo più antico di quello che oggi può essere illustrato da un semplice filmato ripreso da uno smartphone.

Un esempio illuminante vale per tutti: lo scorso anno erano a Gerusalemme studenti della nostra Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, che partecipavano al corso estivo condotto insieme ad altre facoltà teologiche italiane ed università romane presso lo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme. Ebbene i nostri studenti riferivano una lettura ben diversa dei missili che, secondo i vari corrispondenti, sarebbero caduti sulla Città Santa. Quelli piovuti anche sul cielo di Gerusalemme anche i lanci destinati a cadere nel deserto, che il sistema antimissile Iron-Dome riteneva innocui: tutti gli altri erano distrutti in volo, anche se le foto che gli studenti della nostra facoltà inviavano, erano apparentemente di segno diverso. Ma tutti sono ritornati a casa sani e salvi, e magari intimoriti da quello che le loro famiglie e gli amici rimasti in Italia dicevano loro, basandosi sui nostri telegiornali.

Ma l’immagine era quella che era. Ad ogni modo decine e decine di pellegrinaggi, vennero (e purtroppo sono ancora) cancellati. Anche se nessun pericolo sussiste. Semmai il problema era di altra natura, squisitamente etica: i morti e le distruzioni che ogni giorno si aggiungevano a trecento chilometri di distanza.

Un problema simile fu risolto quando la Terra Santa e Gerusalemme era di fatto esclusa dagli itinerari dei pellegrinaggi (con le classiche Roma e Santiago), con la costruzione dei complessi dei Sacri Monti, ad esempio di Varallo Sesia in Piemonte e di S. Vivaldo in Toscana, di cui parla Cardini nel suo recente Le Gerusalemme d’Italia (il Mulino, Bologna 2015), che permettevano il pellegrinaggio nelle terre bibliche senza pericoli a chi ne fosse stato impedito per ragioni di salute, di età e di condizione sociale, evitando il pericolo di un viaggio così rischioso, soprattutto dopo la caduta del regno latino di Gerusalemme (1187) e quella di Costantinopoli (1453).

Oggi al posto dei Sacri Monti, l’informazione distorta invia ai parchi delle Disneyland (la citazione è sempre tratta da Cardini) senz’anima che finiscono per prevalere in questi tempi difficili.

La collaborazione tra le Facoltà Teologiche per promuovere la qualità degli insegnamenti e della ricerca.

logo_facoltadi Stefano Tarocchi • È noto che la S. Sede ha una propria agenzia, l’AVEPRO deputata a valutare e sostenere la qualità degl’insegnamenti e della ricerca delle Facoltà e delle Università riconosciute dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica. La stessa Facoltà Teologica dell’Italia Centrale (FTIC) ha recentemente ricevuto la visita della commissione incaricata di stilare un parere esterno motivato, che va ad affiancarsi al rapporto di autovalutazione che è stato prodotto dalla medesima istituzione accademica.

Meno noto il fatto che va avanzando a grandi passi con l’aiuto della stessa AVEPRO, come conseguenza delle varie valutazioni, il procedimento di accreditamento delle Facoltà Teologiche situate nella nostra penisola presso il Ministero italiano dell’Università e della Ricerca (MIUR) in vista dell’adesione alla carta Erasmus plus, per la mobilità di studenti e docenti, e della partecipazione ai programmi operativi regionali e nazionali. Questo è un passaggio delicato verso un obiettivo da tempo dichiarato in attesa del compimento del “processo di Bologna”: riconoscimento civile dei titoli rilasciati da una facoltà teologica riconosciuta dalla S. Sede, che in questo caso garantisce i propri titoli (baccalaureato, licenza e dottorato), ma anche i titoli rilasciati dagli istituti superiori di scienze religiose, e dagli istituti teologici affiliati ed aggregati.

Si tratta di un percorso non semplice, data la singolarità situazione italiana in cui sono presenti alla trattativa oltre alla Conferenza Episcopale nazionale ed il MIUR, anche Segreteria di Stato, e che oltre al tipo di riconoscimento che prevedeva il Concordato del 1984.

Una delle chiavi dell’accreditamento della ricerca teologica condotta in una comunità accademica come quella di una Facoltà teologica, indipendente o inserita nel contesto di una università, è la capacità di intessere relazioni anche con altri istituti analoghi in Italia e nel mondo, per uno scambio effettivo di studenti e docenti che va oltre lo specifico linguistico in una chiave rafforzata di grande collaborazione, seppure nelle rispettiva autonomia.

In tale contesto, la FTIC ha firmato recentemente a Breslavia (Wrocław) il quarto accordo di collaborazione e di scambio di docenti e studenti, nonché di programmi di ricerca comuni, con la Pontificia Facoltà Teologica della città che nel 2016 sarà capitale europea della cultura.

L’accordo con Breslavia segue quelli con Cracovia e Lublino (entrambe le Università, riconosciute dallo stato, sono intitolate a Giovanni Paolo II), con Poznań (Università Adam Mickiewicz), in attesa del perfezionamento di un quinto accordo con un’istituto polacco: quello con l’università di Varsavia, l’università statale Stefan Wyszynsky.

Quest’anno significativamente un docente di Cracovia terrà un corso alla FTIC, che avrà anche un docente invitato proveniente da Varsavia. In questo caso la lingua di insegnamento sarà l’italiano, favorita dalla formazione italiana (nello specifico romana) degli stessi docenti.

Come si evince quella polacca è al pari di altre realtà europee (come Austria e Germania) un mondo a parte, dove la teologia è ammessa a pieno titolo nel numero delle facoltà riconosciute e sostenute dallo stato, sebbene con modalità diverse a seconda delle situazioni geografiche. Anche qui è interessante la chiave linguistica: lo stato polacco finanzia infatti le riviste degli istituti teologici a patto che si aprano a lingue come l’inglese, il francese e anche l’italiano.

L’italiano, sia detto in parentesi, è la quarta lingua maggiormente insegnata nel mondo (dopo le “lingue inglesi” – ossia l’inglese come lingua franca –, il cinese, lo spagnolo), che ha i suoi punti di forza nelle sue espressioni di successo (dal cibo, alla moda, alla musica, alle Ferrari!) e uno sponsor d’eccezione come papa Francesco.

È per ragione anche della lingua italiana che il preside della FTIC è stato chiamato all’interno di almeno due comitati scientifici, come «Poznań Theological Studies / Adam Mickiewicz University in Poznań – Faculty of Theology», e alle riviste delle Facoltà di Lugano e di Breslavia.

Ritornando alla facoltà di Breslavia fu esclusa dal numero delle facoltà dell’università statale dopo il II conflitto mondiale, anche se nel 2004 ottenne nuovamente il riconoscimento statale. Per la sua storia e il suo prestigio il decano della medesima facoltà (corrispondente al preside di una facoltà teologica in Italia) conserva il titolo di Rettore, attualmente il prof. Włodzimierz Wołyniec, e il consiglio della stessa istituzione è denominato “senato accademico”. Si tratta una facoltà che ha attualmente circa 700 studenti. Nella sua sede, collocata accanto alla Cattedrale della città, in una splendida posizione lungo il fiume Odra (Oder in tedesco), è in costruzione il nuovo edificio della biblioteca, progettato con criteri ultra avanzati caratterizzati da una tecnologia raffinata, che conterrà circa cinquecentomila (!) volumi, in larga parte “a scaffale aperto”. Il rettore ha posto la firma insieme al prorettore per le relazioni internazionali, prof. Sławomir Jan Stasiak, e alle autorità accademiche della FTIC: il preside e il segretario generale uscente.

L’accordo con Breslavia si accompagna a quello con lo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme, e gli accordi con le Facoltà e Università Teologiche, dalla Facoltà Teologica di Lugano a quella dell’Italia Settentrionale (Milano), come capofila, fino alla Pontificia Università Gregoriana, al Laterano e all’Angelicum, dalla S. Croce alla Facoltà Teologica del Triveneto (Padova) che partecipano alla Summer School di Archeologia e Geografia Biblica, organizzata sempre a Gerusalemme da diversi anni (dal 2008). Quest’anno prevedeva anche per la prima volta un lettorato di ebraico biblico, all’interno di un corso di introduzione al giudaismo. È altresì allo studio il perfezionamento del II livello del corso di Archeologia e Geografia Biblica.

Accordi sono stabiliti infine anche con l’Istituto Universitario Sophia di Loppiano per l’assegnazione di diplomi congiunti di dottorato.

In margine al convegno di Volos tra cattolici e ortodossi (giugno 2015)

bapt_02di Stefano Tarocchi • È un fatto ben noto che gli studiosi biblici ortodossi non sono accompagnati da strumenti magisteriali paragonabili alla Dei Verbum del Concilio Vaticano IIdai documenti della stessa Pontificia Commissione Biblica, come la Sancta Mater Ecclesia, 1964 [sulla storicità dei Vangeli, preludio alla stessa Dei Verbum]; L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa,1993), fino all’esortazione post-sinodale Verbum Domini di Benedetto XVI (2010). Naturalmente senza dimenticare l’enciclica Divino Afflante Spiritudi Pio XII (1943), che segnò uno spartiacque decisivo per l’esegesi cattolica, che avrebbe puntato dritto al Vaticano II. Divino Afflante Spiritu fu pubblicata cinquant’anni dopo l’enciclica Providentissimus Deus di Leone XIII (1893).Aggiungo che Lo stesso Leone, non va dimenticato, costituì la “Pontificia Commissione Biblica” nel 1902, nove mesi avanti la morte, e nel 1909 Pio X fondò il Pontificio Istituto Biblico. Un autorevole studioso delle scienze bibliche ebbe a scrivere qualche anno fa che “per noi oggi è difficile renderci conto in un modo realistico della nube scura di atteggiamento reazionario che pendeva sopra l’interpretazione cattolica della Bibbia nella prima metà del ventesimo secolo” (J.A. Fitzmyer).

Anche se il mondo ortodosso non ha alle spalle questo consolidato movimento, è possibile registrare una certa enfasi sulla materia, soprattutto nel clero più alto in grado. Si tratta comunque di una condizione che è piuttosto vaga riguardo il suo contenuto.

Tuttavia, anche la Chiesa ortodossa – che tra l’altro non ha respinto in epoca moderna la critica biblica – fino dalle primissime fasi della sua storia ha sviluppato la sua teologia sulla Bibbia. Non è senza significato, inoltre, che nella sua lunga storia essa ha rifiutato di accettare qualsiasi dogma che non fosse basato sulla Bibbia, per non parlare del fatto che tutte le dottrine conciliari del primo millennio della Chiesa hanno avuto una chiara fondazione biblica.

L’interpretazione della Scrittura è compresa come una spirale continua di lettura e rilettura dove tre differenti realtà interagiscono: il testo stesso nel suo stabilirsi storico e sociale, la tradizione teologica della sua ricezione, e le sfide moderne che un testo deve affrontare e a cui deve rispondere. È un terreno molto promettente da esplorare.

Semmai le difficoltà si registrano nel rifiuto di usare una traduzione moderna del testo neotestamentario, usato invece nella sua lingua originaria, il greco della koinê, di difficile comprensione alla maggior parte dei greci contemporanei.

In questo percorso si è inserito il Secondo Meeting Internazionale (Thessalia Conference Center, Melissatika, Volos, Grecia) dall’11 al 13 giugno: «The Baptism in the New Testament from an Orthodox and Roman Catholic perspective», che ha visto come protagonista la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale e l’Accademia Teologica di Volos, del patriarcato greco ortodosso di Demetriade (Tessaglia). Questa conferenza è stato sostenuto, rappresenta un contributo per l’enorme sforzo – qualcuno ha usato la parola “titanico” – della Chiesa cattolica e di quella Greco-Ortodossa verso la loro unione sacramentale.

Al proposito, secondo la tradizione l’Eucaristia e il Battesimo sono considerati come i due sacramenti che Gesù Cristo ha istituito per la Chiesa; perciò la “teologia eucaristica” e la “teologia battesimale” non sono né di valore diverso per quanto riguarda la ricerca dell’unità della Chiesa, né si escludono a vicenda, ma la prima è un elemento costitutivo e la condizione dell’altra.

Tuttavia, nonostante i progressi compiuti nel Concilio Vaticano II, finora il fondamento biblico della «nostra fede comune» – sono parole usate da uno dei relatori ortodossi – non è ancora considerato in molte riflessioni teologiche contemporanee dell’ortodossia come «prerequisito per interpretazioni più recenti» ed attualizzanti.

Al termine del Meeting gli studiosi cattolici e greco-ortodossi intervenuti si sono dati appuntamento a Firenze per il 2017, come già era avvenuto in occasione del Primo Convegno Internazionale di Studi Biblici («The present and future of Biblical Studies in the Orthodox and Roman Catholic Churches»– Aula Giovanni Benelli, 6-7 giugno 2013): «Testimonianze del Nuovo Testamento sul mistero della divina Eucaristia».

Gesù parlava greco?

Gesu_e_centurione_Veronesedi Stefano Tarocchi • La maggior parte degli storici crede che Gesù parlasse aramaico, ma anche di considerare la possibilità che conoscesse ebraico ma anche il greco, e perfino il latino.

Cominciamo dall’aramaico, che è una lingua semitica, imparentata con l’ebraico, l’arabo e con altre lingue della stessa area.

Ai tempi dell’impero assiro (ottavo secolo a.C.), l’aramaico divenne comune per tutto il Vicino Oriente antico come lingua della diplomazia. Questo tipo di aramaico si è conservato nei documenti ufficiali e nelle iscrizioni, come quelle trovate su alcune tombe. Durante l’impero persiano (VI-IV secolo a.C.), l’aramaico era la lingua predominante della regione, e lo rimase almeno fino all’VIII secolo d.C.

Questa lingua viene parlato ancora oggi in alcuni villaggi della Turchia sud-orientale, nel nord dell’Iraq e nell’Iran del nord ovest, come pure in tre villaggi della Siria, Malula ed altri, vicino a Damasco, purtroppo distrutti dalla violenza della guerra e dalla follia dell’IS. In quest’ultimo caso si tratta dell’aramaico più vicino alla lingua antica. Negli scorsi anni queste tradizioni erano state parzialmente rivalutate anche dal governo siriano, che voleva impedire che si disperdessero: fino a non molto tempo fa, infatti, il linguaggio era trasmesso solo oralmente. I guai nacquero quando ci si accorse che l’aramaico scritto rassomiglia ai caratteri ebraici del vicino Israele. Nello stesso Iraq esiste una remota tradizione cristiana, con la presenza di caldei e assiri che risale al II secolo d.C. Si spiega così la celebrazione di riti ancora oggi nella lingua siriaca, derivante anch’essa dall’aramaico.

Da quando la Palestina entrò a far parte dell’impero persiano, gli ebrei, che avevano come lingua madre l’ebraico, soprattutto quelli delle classi più elevate, cominciarono a parlare aramaico. Anche parti dell’Antico Testamento sono scritte in aramaico: Esd 4,8 – 6,18; 7,12-26; Dn 2,4 – 7,28; Ger 10,11. Questo significa che uno dei principali passi nell’Antico Testamento per la nostra comprensione di Gesù compare in aramaico: la visione di Daniele di “uno simile ad un figlio d’uomo” è scritta in aramaico (Dn 7,13).

Negli anni in cui vive Gesù l’aramaico era la lingua più parlata in tutta la regione, sebbene l’ebraico possa essere stato dominante in Giudea, ma era diffuso anche l’uso del greco.

Verso la metà del primo secolo dell’era cristiana, i rotoli in ebraico dell’Antico Testamento furono tradotti in aramaico per destinarli alle sinagoghe, perché molti non capivano più l’ebraico. È molto probabile che in Galilea, dove Gesù crebbe e iniziò il suo ministero, l’aramaico fosse la lingua più comune, sebbene molti fossero in grado di comprendere l’ebraico ed anche un po’ di greco, lingua nella quale viene scritto il Nuovo Testamento.

I Vangeli, tuttavia, comprendono parole non greche nel testo (ma scritte con lettere greche). Alcune di queste parole sono certamente aramaiche; altre sono probabilmente aramaiche, sebbene possano essere una variante dell’ebraico. La parola «Abbà» per esempio, che significa «babbo» o «padre» in aramaico, può anche essere trovata in certi dialetti ebraici.

Una delle frasi in aramaico dette da Gesù che più ricordiamo nei Vangeli è il grido di Gesù in croce: «eli eli lema sabachthani» (Mt 27,46). Mc 15,34 usa eloi invece di eli. La frase è poi tradotta in greco da Matteo e Marco: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Si tratta di una citazione dal Salmo 22,1. Il fatto che Matteo e Marco abbiano fatto parlare Gesù in aramaico suggerisce che questo versetto fu ricordato dalla prima comunità cristiana nella sua lingua originale.

Ancora prima della passione, un episodio in cui Gesù si esprime in aramaico si trova in Mc 5,41. Gesù entra nella casa di Giairo, un capo di una sinagoga, la cui figlia era morta. «Presa la mano della bambina, le disse: “Talità kum”, che significa: “Fanciulla, alzati”». Sia Matteo che Luca raccontano la stessa vicenda, ma omettono la frase (Mt 9,24; Lc 8,54). Il solo Marco riporta delle parole di Gesù in aramaico. Probabilmente quest’uso dell’aramaico non era comune: proprio questo motivo l’evangelista ha sentito la necessità di riportarlo.

Questo prova con certezza che Gesù parlava aramaico e lo usava per il suo ministero: sarebbe molto difficile pensare diversamente. Questo però non vuol dire che egli usò solo questa lingua. Gesù, infatti, parlava o insegnava anche in ebraico, come per esempio nell’uso frequente di amén (vedi Mt 5,18; Gv 3,11).

In Lc 4 si racconta dell’episodio di Gesù alla sinagoga della sua città, Nazareth, e durante la riunione dell’assemblea lesse i rotoli del profeta Isaia. La lettura avvenne sicuramente in ebraico, secondo l’uso sinagogale, che prevedeva la successiva traduzione in aramaico (ogni versetto nel caso de i libri della Torah, ogni tre per gli altri libri). Anche se parlava aramaico come prima lingua, Gesù aveva appreso l’ebraico come quasi tutti gli ebrei del tempo alla scuola sinagogale.

Diversi altri racconti dei Vangeli favoriscono la teoria secondo cui Gesù era in grado di servirsi anche dell’ebraico quando la situazione lo richiedeva. Per essere credibile come interlocutore, con molta probabilità, Gesù usava l’ebraico quando era impegnato in discorsi con i farisei, gli scribi e gli altri capi ebrei.

Gesù però potrebbe aver conosciuto anche il greco. Da quando Alessandro Magno conquistò la Palestina nel 332 a.C., la lingua greca s’impose come lingua del governo e, sempre più, del commercio e della cultura. È probabile che, al tempo di Gesù, gli ebrei con una buona istruzione, soprattutto quelli delle classi più alte, che si occupavano di commercio e di governo, abbiano conosciuto e usato il greco, o avuto almeno delle basi di questa lingua.

Il Vangelo di Matteo racconta il dialogo di Gesù con un centurione romano (Mt 8,5-13). Il centurione quasi certamente parlava in greco e, come Matteo scrive, lui e Gesù conversavano senza un interprete, come suggerisce il senso della narrazione.

Lo stesso si potrebbe affermare della conversazione avuta da Gesù con Ponzio Pilato prima della sua crocifissione (Mt 27,11-14; Gv 18,33-38; 19,8-15). Anche qui si può pensare alla possibilità di un traduttore (non menzionato nel testo!), ma l’espressività del racconto favorisce la realtà di un Gesù che parlava greco. Anche Pilato avrebbe usato il greco, non il latino, come ha invece immaginato noto regista in un film: non è nemmeno ipotizzabile che un governatore romano abbia potuto conoscere ed usare l’aramaico, la lingua di un popolo suddito.

Se Gesù conosceva abbastanza il greco tanto da conversare con un centurione romano e con un governatore romano, dove lo apprese? La spiegazione più probabile orienta verso la Galilea. Sebbene l’aramaico fosse la prima lingua di Nazareth, la città natale di Gesù era a poca strada da Sefforis, una città importante, che fu anche capitale della Galilea, in cui si parlava greco. Quindi anche se non si può essere certi che Gesù parlasse il greco, si può ragionevolmente immaginare che possa averlo utilizzato in diverse occasioni.