«Fu trasfigurato davanti a loro»
Al centro c’è un monte, che non ha nome, lo stesso Gesù, e tre discepoli del gruppo dei Dodici. Subito dopo l’episodio c’è il secondo dei tre annunci della passione, e il commento conseguente di Gesù (Mc 9,30-37).
Così leggiamo: «sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni – in Luca abbiamo «Pietro, Giovanni e Giacomo» – e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati.
Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti» (Mc 9,2-10).
Il racconto usa un’espressione estremamente evocativa quanto misteriosa per mettere in luce ciò che è accaduto a Gesù: «fu trasfigurato davanti a loro».
Nella sua pagina l’evangelista Marco si muove a descrivere le vesti di Gesù, con il tocco diremmo quasi pittorico del suo tipico narrare: «le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche» (Mc 9,3). Così negli altri vangeli: «la sua veste divenne candida e sfolgorante» (Lc 9,29); «le sue vesti divennero candide come la luce» (Mt 17,2). Nei racconti paralleli di Matteo e di Luca lo sguardo del narratore si concentra anche sul volto di Gesù, divenuto quasi straniero: «mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto», letteralmente «divenne altro» (Lc 9,29); «il suo volto brillò come il sole» (Mt 17,2).
Non è casuale che anche nel libro dell’Esodo abbiamo: «quando Mosè scese dal monte Sinai non sapeva che la pelle del suo volto era diventata raggiante, perché aveva conversato con il Signore» (Es 34,29). È qui che la traduzione latina di Girolamo ha ispirato in questo tratto la celebre statua di Michelangelo, con due corna che emergono dalla fronte.
Ora, se la veste esprime il nostro essere in relazione con gli altri – l’abito fa il monaco –, il volto esprime la realtà della persona, in tutta la potenzialità del suo essere.
Sul monte, con Gesù e i discepoli, compaiono anche Elia con Mosè, invertiti nell’ordine in cui ci aspetteremo di trovarli come rappresentanti delle sacre Scritture: la Legge e i Profeti. Oltretutto Elia non è nemmeno un profeta che ha lasciato un suo scritto, ma è immagine forte per descrivere la missione di Gesù: così il Battista ne riprende i tratti più significativi.
Tuttavia, ciò che conta in questa occasione è la testimonianza di Mosè ed Elia, che infatti nel parallelo di Luca diventa il colloquio sull’esodo di Gesù («Mosè ed Elia, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme»: Lc 9,30-31), ossia sulla passione che lo attende a Gerusalemme.
Nel testo di Marco la presenza di Mosè ed Elia giustifica le parole con cui Pietro, in maniera quasi ingenua, propone di costruire tre tende sul monte, per Gesù e i due rappresentanti delle antiche Scritture: «è bello essere qui» (Mc 9,5).
L’evangelista mette in rilievo lo spavento di Pietro, che provoca l’assoluta incapacità di comprendere quell’evento, e non, come talora si sente, l’intenzione di restare sul monte, evitando la discesa dallo stesso monte che conduce poi a Gerusalemme.
Di più, su quel monte si presenta anche una vera e propria manifestazione divina, con la voce che parla dalla nube e indica il Figlio, ponendolo al centro dell’ascolto dei discepoli: «questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (Mc 9,7). E anche: «questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!» (Lc 9,35); «questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo» (Mt 17,5). Queste sono anche le identiche parole che troviamo nel racconto del battesimo di Matteo: «questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento» (Mt 3,17).
L’episodio della trasfigurazione ha il suo culmine nel momento della discesa, con l’ordine di Gesù ai discepoli di non rivelare quanto hanno veduto sul monte. Il termine è fissato dopo la risurrezione dai morti del Figlio dell’uomo.
Ma è proprio questa la domanda che si pongono: che cosa significa risorgere dai morti?
In questa maniera l’evangelista narra ai suoi lettori il cammino verso Gerusalemme: una volta stabilito che Pietro afferma che Gesù è il Cristo (Mc 8,29), è il momento di compiere il viaggio verso Gerusalemme. La città santa saprà rivelare in pieno il significato di questo episodio carico di mistero.
Intanto i discepoli si trovano in mezzo alla loro povertà di creature umane, «uomini di poca fede» (Mc 4,40).
Infatti, poco prima, ed esattamente quando ha riferito le sue parole, il Vangelo di Marco ha riferito che Pietro «non sapeva cosa convenisse dire: erano spaventati» (Mc 9,6; cf. Lc 17,33: «egli non sapeva quello che diceva»). Così che in Luca e in Matteo si parla di paura e di terrore: «all’entrare nella nube, ebbero paura» (Lc 17,34); «all’udire ciò [la voce divina che parla dalla nube], i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore» (Mt 9,6). Ma proprio in quel momento, è sempre Matteo a raccontarlo, «Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete» (Mt 17,8).
Possiamo chiederci il perché di questo silenzio: si tratta forse di una delle modalità del silenzio messianico, o meglio della possibilità di equivocare sull’interpretazione della missione di Gesù?