«Che cos’è la verità?»: la domanda di Pilato a Gesù

Il Mantello della Giustizia – Dicembre 2018

«Che cos’è la verità?»

download (2)di Stefano Tarocchi • La liturgia dell’ultima domenica dell’anno liturgico (anno “B”), appena trascorso, ha nel suo centro una pagina del vangelo di Giovanni, tratta dal processo di Gesù davanti al prefetto romano: «Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». Gli dice Pilato: «Che cos’è la verità?». E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei» (Gv 18,33-38).

In verità il testo usato dalla liturgia termina con il versetto precedente, il 37. Quindi la celeberrima domanda di Pilato («che cos’è la verità»), con il suo carico di significato, viene totalmente omessa agli orecchi di quanti partecipano all’Eucaristia. Inoltre, non è un caso che Pilato la pronuncia quando sta uscendo per tornare verso i suoi interlocutori esterni, coloro che «non erano entrati nel pretorio per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua» (Gv 18,28) come segnalava Giovanni al suo lettore con la sua drammatica ironia. Gli stessi che vanno a chiedere la condanna a morte di un innocente hanno il timore di una contaminazione puramente esterna.

Ma Pilato, come detto, formula la domanda mentre sta uscendo verso i Giudei, in quella situazione paradossale che costringe il prefetto ad entrare ed uscire dal suo tribunale, prima di sedersi sulla sella curule, da cui avrebbe pronunciato la condanna.

In effetti egli si trova in una ben strana condizione: non può conoscere le parole dette da Gesù a Tommaso, «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv14,6). Ma forse, al pari di tanti nostri contemporanei, che non sono in grado di interloquire con il prossimo – né lo desiderano veramente –, non è nemmeno interessato alla risposta.

Com’è noto, nelle accuse mosse a Gesù, c’era stato uno slittamento dal piano religioso a quello politico, che prevedeva il ben noto principio dell’autonomia delle terre amministrate da Roma (suis moribus legibusque suis uti). Pilato venne usato per ratificare la condanna già stabilita dai maggiori esponenti del giudaismo: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare» (Giovanni 19,12). Era questo l’unico motivo per portare Gesù alla morte, senza poter invocare a Gerusalemme la Lex Iulia maiestatis che a Roma puniva chi avesse voluto sostituirsi al potere costituito proclamandosi «re dei Giudei».

Pilato pone una domanda, senza attendere la risposta di Gesù. Che peraltro nemmeno c’è, ma il prefetto non ha il tempo di ascoltarla, e nemmeno di accoglierla, al pari di tante domande così declinate nelle relazioni umane di tutti i giorni.

Questo dettaglio è straordinariamente attuale nei tempi che viviamo, in cui – come scrive papa Francesco in Evangelii Gaudium – «gli enormi e rapidi cambiamenti culturali richiedono che prestiamo una costante attenzione per cercare di esprimere le verità di sempre in un linguaggio che consenta di riconoscere la sua permanente novità» (EG 41).

D’altronde, «una cultura, in cui ciascuno vuole essere portatore di una propria verità soggettiva, rende difficile che [gli uomini] desiderino partecipare ad un progetto comune che vada oltre gli interessi e i desideri personali» (EG 61).

Pertanto, l’idea di verità viene mutata in quella, molto più inquietante di post-verità, in cui hanno senso solo le interpretazioni che vengono date ai fatti, come già nel 1873 aveva già sostenuto Nietzsche.

Ossia, ma era già l’insegnamento di Platone, «si manipola la verità, così come si sostituisce la ginnastica con la cosmesi» (EG 232). Scrive papa Francesco: «L’idea – le elaborazioni concettuali – è in funzione del cogliere, comprendere e dirigere la realtà. L’idea staccata dalla realtà origina idealismi e nominalismi inefficaci, che al massimo classificano o definiscono, ma non coinvolgono. Ciò che coinvolge è la realtà illuminata dal ragionamento. Bisogna passare dal nominalismo formale all’oggettività armoniosa. Diversamente si manipola la verità, così come si sostituisce la ginnastica con la cosmesi». E così aggiunge: «vi sono politici – e anche dirigenti religiosi – che si domandano perché il popolo non li comprende e non li segue, se le loro proposte sono così logiche e chiare. Probabilmente è perché si sono collocati nel regno delle pure idee e hanno ridotto la politica o la fede alla retorica. Altri hanno dimenticato la semplicità e hanno importato dall’esterno una razionalità estranea alla gente». (EG 232).

E qui il papa è fin troppo ottimista, dato lo spettacolo che quotidianamente ci assale…

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.