La recente visita di Papa Francesco a Istanbul

francesco e bartolomeodi Stefano Tarocchi • La recente visita del papa Francesco ad Istanbul, dal patriarca ecumenico Bartolomeo, in occasione della festa di S. Andrea, il 30 novembre scorso, è solo l’ultimo di una serie di incontri fra i due. Cominciò Bartolomeo per l’inizio del ministero petrino di Francesco, la prima volta che un patriarca ecumenico, partecipava di persona a tale evento. Poi l’incontro nel viaggio di Francesco a Gerusalemme, lo scorso maggio, seguito a breve dalla partecipazione alla preghiera indetta da Francesco per la pace in Medio Oriente con Abu Mazen e Shimon Perez, ma anche dalla presenza a Roma per la festa dei Santi Pietro e Paolo.

Bartolomeo ha commentato l’incontro del 30 novembre come «un fatto storico e ricco di buoni auspici per il futuro. Esso costituisce un ulteriore tassello nel ponte tra Occidente e Oriente costruito poco a poco dalle visite di Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI». E ha aggiunto sottolineando la testimonianza della volontà Vostra del papa e della «Santissima Chiesa di Roma, di proseguire il fraterno costante cammino con la nostra Chiesa Ortodossa, per il ristabilimento della completa comunione tra le nostre Chiese».

Lo stesso desiderio è espresso da Papa Francesco nella stessa celebrazione quando, con animo colmo di gratitudine, dice che «Dio mi concede di trovarmi qui a pregare insieme con Vostra Santità e con questa Chiesa sorella». «Il Signore ci ha donato ancora una volta il fondamento che sta alla base del nostro protenderci tra un oggi e un domani, la salda roccia su cui possiamo muovere insieme i nostri passi con gioia e con speranza».

E «sento – afferma Francesco – che la nostra gioia è più grande perché la sorgente è oltre, non è in noi, non è nel nostro impegno e nei nostri sforzi», ma «nel comune affidamento alla fedeltà di Dio». «Questa pace, questa gioia, il mondo non la può dare – sottolinea il Papa – invece il Signore Gesù l’ha promessa ai suoi discepoli, e l’ha donata loro da Risorto.

«Andrea e Pietro hanno ascoltato questa promessa – prosegue il Santo Padre -, hanno ricevuto questo dono. Erano fratelli di sangue, ma l’incontro con Cristo li ha trasformati in fratelli nella fede e nella carità. E in questa sera gioiosa, in questa preghiera vorrei dire soprattutto: fratelli nella speranza».

La radice di questa affermazione del papa sta nel testo del Vangelo secondo Giovanni, caro alla chiesa orientale, che così racconta la chiamata di Pietro ad opera del fratello Andrea, chiamato dal Signore prima di lui: «Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro (Gv 1,40-42). E appunto Andrea è chiamato il “protóclito”, ossia il “primo chiamato” come lo ebbe a definire lo stesso papa emerito ancora nel giugno 2006.

Questa sorta di primogenitura della chiamata, che muove Andrea, insieme ad un altro discepolo che resta anonimo nel racconto del Vangelo di Giovanni (lo stesso autore?), dalla sequela di Giovanni il Battista a quella di Gesù, è indirizzata alla chiamata di Simone. Il racconto del Quarto vangelo è assai diverso da quello della tradizione sinottica (vedi Mc 1,16-20), in cui è Gesù stesso a chiamare alla sua sequela due coppie di fratelli, Pietro e Andrea, appunto e Giacomo e Giovanni.

Gli eventi di queste ultime settimane sono a dirci che Pietro è andato da Andrea, nella speranza che i due possano «essere fratelli nella speranza del Signore Risorto!». Così, colmo di «gratitudine e trepidante attesa», il papa conclude l’indirizzo di risposta augurando a Bartolomeo e alla Chiesa di Costantinopoli il “fraterno” augurio per la festa del Santo Patrono. In cambio chiede – inaspettatamente – «il favore di benedire me e la Chiesa di Roma», chinando il capo in attesa che il “fratello” gli imponga le mani. E Bartolomeo, senza esitazioni, gli dona affettuosamente un bacio sulla testa. Il fratello ha chiamato il fratello sulla via della sequela di Gesù; il fratello accoglie il fratello sulla strada della comunione.

Se questa, fatta di gesti e di segni emblematici, è la strada per il ristabilimento di una comunione completa fra la chiesa di Roma e quella di oriente, ce lo dirà il tempo. Oggi possiamo dire che è sicuramente una delle vie su cui insiste il ministero petrino di Francesco, pur nella consapevolezza della complessità delle situazioni in cui la seconda (Istanbul) e la terza Roma (Mosca) si dibattono.

Armenia. Note da un viaggio

armenia_landscapedi Stefano Tarocchi • Periferia di Yerevan in Armenia, domenica mattina. In un quartiere popolare, la parrocchia cattolica si è ricavata uno spazio improvvisato in cui i locali pastorali coesistono con due cappelle ricavate nell’edificio. Un prete ci apre la porta. Ci accompagna per la celebrazione alla cappella più piccola che si affaccia si un giardino. Comincia a preparare, ma non riesce a trovare modo di accendere le due candele dell’altare, sul presbiterio simile a quelli antichi e moderno degli edifici sacri della Chiesa Apostolica, maggioritaria nel paese.

Il prete è in realtà Raphael François Minassian, l’arcivescovo della piccola comunità cattolica, sempre di rito armeno. Fino al 2011 fa risiedeva a Gerusalemme come esarca patriarcale. In precedenza aveva lavorato negli Stati Uniti, come parroco di comunità armene. «Rispetto all’esperienza di Gerusalemme è tutto cambiato», ha raccontato in un intervista. «Ho la responsabilità pastorale degli armeni cattolici in tutte le repubbliche ex-sovietiche e in alcune nazioni limitrofe, un milione circa di fedeli. Per questa ragione sono chiamato a conoscere e a visitare le varie comunità sparse in un territorio vastissimo».

Comincia così il viaggio in una delle terre sante del cristianesimo. La prima testimonianza dell’introduzione del cristianesimo in Armenia risale al I secolo, quando, dice la tradizione, vi arrivarono Bartolomeo e Taddeo, due dei dodici apostoli. L’Armenia fu la prima nazione ad adottare il Cristianesimo, quando il sovrano arsacite Tiridate III, convertito e battezzato con la sua corte da san Gregorio l’Illuminatore, nel 301 dichiarò il cristianesimo religione di Stato.

La Chiesa armena non prese parte al concilio di Calcedonia (451), in cui si affermò che Cristo è una sola persona in cui convivono due nature, quella umana e quella divina. Essa non aderì neppure alle decisioni prese dopo il concilio, tra cui la condanna del Monofisismo (sostenuto dalla Chiesa ortodossa siriaca). Essa si separò definitivamente dall’occidente latino nel 554 (un anno dopo il concilio di Costantinopoli II), quando gli armeni rigettarono le tesi “duofisite” del concilio di Calcedonia. È stata definita «monofisita»; tuttavia essa, pur essendo in disaccordo con la formula stabilita nel concilio di Calcedonia, considera il monofisismo, così come professato da Eutiche, un’eresia. La Chiesa apostolica aderisce invece alla dottrina di Cirillo di Alessandria (370-444), che considera la natura di Cristo come unica, frutto dell’unione di quella umana e divina. Per distinguere questa forma da quella di Eutiche, essa viene denominata «miafisismo». L’arcivescovo Minossian sostiene sia arrivato il tempo che la Chiesa apostolica cerchi una maggiore unità interna, risolvendo questioni legate a sedi e patriarcati indipendenti, per trovare poi un cammino di piena comunione anche con la Chiesa cattolica.

E qui è necessario parlare dell’ordine Mechitarista, dal nome del suo fondatore, Mechitar, nato nel 1676 e monaco a 15 anni nell’ordine armeno di S. Antonio abate. Mechitar dedicò la vita intera cercando di favorire il rientro della Chiesa apostolica nella comunione piena con la Chiesa cattolica.

Mechitar partì per Roma nel 1696, per approfondire gli studi, ma dopo una grave malattia fu costretto a rientrare in patria. Ordinato prete nello stesso anno, si trasferisce a Costantinopoli nel 1700, dove, con una decina di discepoli, inizia una vita di predicazione e di preghiera. L’8 settembre 1701, festa della natività di Maria, la comunità si consacra al Signore, sotto la protezione della Vergine. Questo crea un conflitto con la comunità originaria, ma anche con la popolazione musulmana, a causa della fede cristiana. Mechitar e i suoi seguaci si trasferiscono nel territorio controllato dalla repubblica di Venezia, nella penisola di Morea. Cinque anni dopo chiedono a papa Clemente XI di approvare il loro ordine.  Ai tre voti originari, che nel monachesimo armeno non venivano pronunciati espressamente, Mechitar ne aggiunse un quarto: l’apostolato fino all’effusione del sangue. Gli aderenti all’ordine, inoltre, dovevano essere armeni, almeno da parte di un genitore. Papa Clemente accolse la loro richiesta, ma impose di scegliere una regola monastica occidentale. Mechitar scelse la regola di s. Benedetto.

Vicende di guerra con i Turchi conducono nel 1715 i monaci a Venezia, nell’isola di s. Lazzaro, acquistata dalla Serenissima. Già sede dei monaci benedettini, nel XII secolo l’isola fu destinata a lebbrosario, quindi ad alloggio di poveri e malati, prima dell’arrivo dei Mechitaristi era stata a lungo totalmente abbandonata. Mechitar vi muore nel 1749. Seguendo l’esempio del fondatore, i suoi monaci continuano il lavoro di riscoperta, di studio, di traduzione e di stampa di antichi scritti armeni e della traduzione in armeno di importanti opere sia classiche che della cristianità: un contributo straordinario allo sviluppo culturale del popolo armeno, per diffonderne la conoscenza anche in Occidente e, al contempo, sviluppare un cammino che riporti alla comunione con la Chiesa di Roma.

Non ci resta il tempo di parlare delle bellezze storiche e architettoniche del territorio armeno, senza trascurare le grandi croci in pietra (khachkar). Voglio solo accennare che nel 2015 sarà ricordato il centenario del genocidio armeno:  i Turchi tra il 1915 e il 1923,  infatti, si renderanno responsabili dello sterminio oltre 1.500.000 armeni residenti nell’Anatolia (gli “Armeni occidentali”). Nell’anno 2015 sarà celebrato il centenario del “grande male”, che segna ancora la storia di questo popolo.

Sulla parabola della vigna (Matteo 20)

97_bdi Stefano Tarocchi • La parabola della vigna, del capitolo 20 del Vangelo di Matteo, anch’essa da annoverare fra le parabole del regno dei cieli, presenta alcune caratteristiche degne di approfondimento.

La vicenda narrata è ben conosciuta. Come in molti paesi del mondo antico si è assunti per un lavoro a giornata, capace di assicurare ad una famiglia la possibilità di superare indenne un giorno, ed un giorno soltanto.

In alcuni paesi del mondo ancora oggi si è pagati a settimana. In altri, comprese alcune zone del “sottosviluppo” italiano, è sfruttata così la manodopera di immigrati clandestini, sottopagati e costretti al silenzio per una paga su cui c’è anche da pagare una tangente al caporione locale.

Nel testo di Matteo invece, la paga giornaliera è stabilita in un “denaro” – parola quanto mai evocativa –, la moneta che definisce appunto la differenza tra la fame e un’esistenza almeno dignitosa. È questa la misura che troviamo anche in altri passi della letteratura evangelica. Due capitoli avanti, nello stesso vangelo di Matteo, definisce la misura da restituire ad un compagno della stessa “impresa”: trecento denari (quasi un anno di lavoro), che un “dipendente” deve riscuotere da un suo “collega”, che però è incapace di restituirla. Questi non ha i mezzi e quindi è nella medesima condizione dell’altro, che però deve al “padrone” direttamente una cifra molto più alta: diecimila talenti. A titolo di cronaca questa cifra è stata stimata come 60 milioni di paghe giornaliere di un operaio di allora. Se il “talento” equivaleva a seimila denari, cioè al salario di seimila giornate lavorative (oltre sedici anni di lavoro), diecimila talenti corrispondevano a quasi 165.000 anni di lavoro.

Ma nella parabola del capitolo 20, sembra essere in gioco molto meno. Decisamente molto meno: la paga di un solo giorno. Tuttavia, tra l’essere chiamati al lavoro oppure no corrispondeva la differenza tra la fame e la sopravvivenza. Ora, anche se la paga quotidiana era frutto di un accordo man mano stabilito (vedi Mt 20,2 con il verbo originale synphonéo, ovvero l’accordo di due o più suoni, da cui il termine “sinfonia”), la cifra era di fatto l’abitudine del tempo.

Nella parabola dei contadini della vigna però viene descritto un fenomeno inatteso: la corsa continua del padrone della vigna ad assumere sempre nuovi contadini. Il testo di Matteo riferisce che dopo la chiamata avvenuta all’alba, ne segue una seconda alle nove del mattino, e poi una terza a mezzogiorno, una quarta alle tre pomeridiane e una quinta alle cinque. Sono disoccupati (lett. “pigri che non lavorano il terreno”) che nessuno ha chiamato al lavoro, o non si sono fatti trovare al momento giusto, il mattino presto, e quasi rassegnati a non portare a casa neanche uno spicciolo, che la generosità e lo spirito di iniziativa del padrone, il padrone di casa (il padre di famiglia!), ha portato al lavoro.

Si presume che l’accordo sullo stipendio sia il medesimo per tutti, ma inevitabilmente è diversa la fatica e le avversità del clima: quello che poi verrà chiamato “il peso della giornata e il caldo” (Mt 20,12), e proprio da colui che, chiamato al lavoro dall’alba fino al tramonto, che oppone al padrone di casa la sua rivendicazione sullo stipendio, evidentemente ritenendosi penalizzato nei confronti di chi di fatto ha lavorato “un’ora soltanto”. E prima delle parole c’erano le mormorazioni, che nel cammino biblico denotano quanto meno una mancanza di fede nella provvidenza.

L’inizio della risposta del padrone (“amico”, lett. “compagno”), io non ti faccio torto. Non hai forse concordato (synephônesas) con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene”) non ammette repliche e sembra quasi stroncare sul nascere qualsiasi opposizione tra i primi e gli ultimi.

A proposito, quest’espressione divenuta quasi proverbiale, ma in senso superficiale, è la cornice del racconto (cf. Mt 19,30 e 20,16).

Il padrone di casa poi aggiunge: “Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te”. E fornisce la spiegazione: “Non posso fare delle mie cose quello che voglio?”.

La traduzione italiana CEI della parabola quindi conclude: “Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?” (cf. Mt 20,13-15).

La scelta di questa resa del testo originale trascura però la vera chiave interpretativa, al di là del fatto che l’agire divino è infinitamente lontano da quelli degli uomini, per cui si rovesciano i normali parametri del giudizio (“gli ultimi saranno i primi e primi gli ultimi”: Mt 20,16).

Infatti, nel sottofondo di quell’invidia c’è ben altro: il testo originale suona infatti: “il tuo occhio è maligno (ponêros), perché io sono buono”. È proprio la contiguità con il male e con il maligno che Matteo ha già riferito nella chiusura della preghiera del Padre nostro, che provo a rendere così: “non lasciare che entriamo nella prova, ma liberaci dal male (oppure dal Maligno) (ponêrou)” (Mt 6,13).

L’occhio maligno di colui che ha il suo proprio metro per giudicare le cose, di chi deve affermare se stesso senza guardare in faccia a nessuno e pensa di lasciare Dio fuori dal proprio cammino quasi mettendosi al suo posto, non permette di accoglierne la bontà ricca di misericordia del suo guardare alla condizione umana. Accettare o respingere la sua lezione e la chiave della saggezza.

Rileggendo “Evangelii Gaudium”, circa il ruolo della teologia

di Stefano Tarocchi  • La lettura dell’esortazione apostolica “Evangelii Gaudium”, il primo testo scritto ufficiale di Jorge Mario Bergoglio, se si prescinde dalla lettera enciclica da lui firmata ma di fatto scritta a quattro mani con Joseph Ratzinger, pone sfide a molti livelli. Chi scrive ha voluto cercare che cosa papa Francesco dice alla teologia e sulla teologia, semplicemente ricercando questa voce all’interno del documento. Scrive anzitutto il papa che «la Chiesa, impegnata nell’evangelizzazione, apprezza e incoraggia il carisma dei teologi e il loro sforzo nell’investigazione teologica, che promuove il dialogo con il mondo della cultura e della scienza» (EG 133). Quindi Francesco aggiunge: «Faccio appello ai teologi affinché compiano questo servizio come parte della missione salvifica della Chiesa. Ma è necessario che, per tale scopo, abbiano a cuore la finalità evangelizzatrice della Chiesa e della stessa teologia e non si accontentino di una teologia da tavolino» (EG 133).

Del resto aggiunge Papa Francesco che «la fede non ha paura della ragione; al contrario, la cerca e ha fiducia in essa, perché “la luce della ragione e quella della fede provengono ambedue da Dio” – e qui Francesco cita la Summa contra Gentiles di S. Tommaso – e non possono contraddirsi tra loro» (EG 242). Sta di fatto che «il dialogo tra scienza e fede è parte dell’azione evangelizzatrice che favorisce la pace» (EG 242).

In “Evangelii Gaudium” il papa precisa, dal proprio canto, che «la Chiesa propone un altro cammino, che esige una sintesi tra un uso responsabile delle metodologie proprie delle scienze empiriche e gli altri saperi, come la filosofia, la teologia, e la stessa fede, che eleva l’essere umano fino al mistero che trascende la natura e l’intelligenza umana» (EG 242).

Sostiene Francesco, dunque, che «la teologia – non solo la teologia pastorale – in dialogo con altre scienze ed esperienze umane, riveste una notevole importanza per pensare come far giungere la proposta del Vangelo alla varietà dei contesti culturali e dei destinatari» (EG 133).

Riprendendo le parole di Paolo VI dell’enciclica Evangelii Nuntiandi, circa la comunicazione del Vangelo, scrive il papa, che «i fedeli da esso «si attendono molto, e ne ricavano frutto purché essa sia semplice, chiara, diretta, adatta» (EG 158).

Francesco aggiunge che se «le Università sono un ambito privilegiato per pensare e sviluppare questo impegno di evangelizzazione in modo interdisciplinare e integrato» (EG 134), è pur sempre vero che «la semplicità ha a che vedere con il linguaggio utilizzato. Dev’essere il linguaggio che i destinatari comprendono per non correre il rischio di parlare a vuoto. Frequentemente accade che i predicatori si servono di parole che hanno appreso durante i loro studi e in determinati ambienti, ma che non fanno parte del linguaggio comune delle persone che li ascoltano. Ci sono parole proprie della teologia o della catechesi, il cui significato non è comprensibile per la maggioranza dei cristiani» (EG 158).

Dice ancora Francesco, a proposito di chi annuncia la parola, che «il rischio maggiore …  è abituarsi al proprio linguaggio e pensare che tutti gli altri lo usino e lo comprendano spontaneamente. Se si vuole adattarsi al linguaggio degli altri per poter arrivare ad essi con la Parola, si deve ascoltare molto, bisogna condividere la vita della gente e prestarvi volentieri attenzione» (EG 158).

Qui ciascuno può trarre le conseguenze che crede, ma senza pretendere di avere l’avallo del magistero petrino per delle fughe in avanti, o più probabilmente, in un passato più sognato che reale. È quindi vero che «il linguaggio [della comunicazione della fede] può essere molto semplice, ma la predica può essere poco chiara». E saggiamente precisa che «la semplicità e la chiarezza sono due cose diverse» (EG 158), quale contributo può arrivare da chi sovrappone, alla parola di Dio per esempio nella liturgia festiva le sue stesse parole.

Per amore della chiarezza. O della brevità. O accampando una pretesa oscurità dell’apostolo Paolo lo cancella tout court dall’orizzonte del popolo di Dio. Un fenomeno ben noto già alle prime generazioni cristiane, se leggiamo: «La magnanimità del Signore nostro consideratela come salvezza: così vi ha scritto anche il nostro carissimo fratello Paolo, secondo la sapienza che gli è stata data, come in tutte le lettere, nelle quali egli parla di queste cose. In esse vi sono alcuni punti difficili da comprendere, che gli ignoranti e gli incerti travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina» (2 Pt 3,15,16).

Credo ci sia molto da riflettere. Anche da “Evangelii Gaudium”.